La politica non basta

In questi sette anni di governo socialista, spiega FERNANDO DE HARO, il potere ha favorito una tensione continua, e le differenze ideologiche hanno determinato le relazioni sociali.

Quella di domenica non è stata solo una vittoria del Partito popolare nelle elezioni politiche, ma un autentico ribaltamento storico. Il centrodestra ha ottenuto la maggioranza assoluta con il 44,6% dei voti e 186 deputati, cosa finora mai vista nella storia della democrazia spagnola. Il cambiamento è stato reso possibile dal tracollo dei socialisti, specialmente in Andalusia. Il Psoe ha perso in tutta la Spagna più di 4.600.000 voti. Un crollo storico che fa risorgere la vecchia sinistra comunista e fa salire la nuova sinistra dell’Upyd (Unione progresso e democrazia).

Zapatero lascia un Paese con cinque milioni di disoccupati e un partito socialista che impiegherà molto tempo per tornare a essere una formazione di governo. Dopo questa clamorosa vittoria di Rajoy, acquistano senso due interventi che il leader dei Popolari ha recentemente fatto. Uno è quello tenuto al Congresso nazionale di inizio ottobre a Malaga. Allora parlò di governare con concordia, recuperando l’unità tra gli spagnoli di altre epoche. Un chiaro riferimento alla Transizione (periodo tra la morte di Franco e l’approvazione della Costituzione, ndr) e al lavoro svolto in quell’occasione da Adolfo Suarez (il primo Capo di Governo eletto democraticamente dopo la morte di Franco, ndr), l’uomo che, nonostante i suoi tanti difetti, ha avuto un ruolo decisivo affinché la Spagna tornasse alla democrazia in una forma ordinata e pacifica.

Zapatero era stato il primo a fare parallelismi con quell’epoca, per via della sua ossessione con il passato, avendo voluto fissare la data delle elezioni il 20 novembre, giorno della morte di Franco. Certamente, la fine del suo secondo mandato non è paragonabile alla morte del dittatore, perché in questi sette anni e mezzo le nostre libertà sono rimaste intatte. Ma ci sono sfide che sono simili a quelle che seguirono la vittoria dell’Ucd (l’Unione del centro democratico, partito guidato da Adolfo Suarez, ndr) nelle prime elezioni democratiche del giugno 1977. Nonostante i progressi fatti, restava ancora da raggiungere l’obiettivo di dare forma politica e istituzionale alla riconciliazione tra gli spagnoli. Le ferite non sono oggi così profonde come all’epoca della Transizione, ma il potere, negli ultimi anni, ha favorito una tensione continua in modo che le differenze ideologiche sono arrivate a determinare in modo pericoloso le relazioni sociali.

La politica non è l’aspetto più decisivo nella vita di un popolo, ma il potere può andare contro i desideri reali della gente, contro la capacità di incontrarsi, contro la possibilità di costruire insieme riconoscendo ciò che ci unisce. E questo è proprio quello che è successo durante quest’ultimo periodo. Dal 1993, dal momento in cui Felipe Gonzalez intuì che avrebbe potuto perdere le elezioni contro Aznar, il Psoe ha subito una trasformazione importante: è tornato a essere dominato dal suo gene più distruttivo, quello della rottura. E da quel momento ha cominciato a mettere in discussione l’accordo di base che ha reso possibile la promulgazione della Costituzione. Lo “spirito maligno” del ‘93 ha mangiato lo spirito della Transizione. Rajoy ha di fronte a sé il compito di esercitare in modo “più laico” il potere, promuovendo il riconoscimento reciproco.

Per realizzarlo non può governare nello stesso modo con cui ha fatto opposizione negli ultimi mesi. Ora c’è da prendere l’iniziativa. Già sappiamo che la mano invisibile del mercato non pone rimedio a tutto. Le tecniche che sono decisive per risolvere il problema del debito sono misure rapide da prendere: aggiustamenti per ridurre il deficit, riforma del lavoro e risanamento del sistema finanziario. Quando Suarez arrivò alla Moncloa almeno aveva l’arma della svalutazione per affrontare l’inflazione e uno sciopero che minacciava le istituzioni. Nel ’77, il sostegno dei comunisti, che “trascinarono” i riluttati socialisti, ha permesso di firmare i Patti della Moncloa. Quegli accordi, che ci hanno salvato dal disastro, imposero sacrifici molto duri alla popolazione, che li accettò di buon grado. È stata una cosa particolarmente significativa, perché la Spagna di allora usciva da un’epoca di paternalismo franchista che limitava le libertà, ma offriva benessere.

È molto probabile che i sindacati e che il Psoe portino avanti lo “spirito del ‘93”. I socialisti, nonostante la crisi interna che hanno di fronte, fomenteranno le proteste di piazza e la demagogia contro una destra che verrà accusata di voler liquidare il sistema di welfare. Rajoy non può contare su una complicità decisiva come quella che Suarez ebbe da Carillo (leader del Partito comunista spagnolo, ndr), ma può conseguirla altrove. Se non la trova nella sinistra politica, può guardare alla società. Ed è qui che ha particolare importanza il suo secondo messaggio, che ha lanciato poco prima della fine della campagna elettorale a Murcia. “Un governo, per buono che sia, non può e non farà tutto.

È il popolo a mettere in marcia una Paese. Abbiamo bisogno, soprattutto, di una società fiduciosa”, ha detto in quell’occasione. Non basta prendere le misure economiche adeguate, occorre risvegliare la fiducia e l’entusiasmo sociale ed evitare chi, come ha fatto Rubalcaba nella sua campagna, ha cercato lo scontro ideologico. E offrire un coinvolgimento reale alla gente, che è il modo “colloquiale” di fare sussidiarietà. L’iniziativa sociale spagnola ha energie, occorre saper risvegliarle e contare sul loro apporto. Nella notte di domenica, il primo discorso di Rajoy è andato nella giusta direzione: ha insistito sul fatto che occorre governare con tutti, ha parlato del bisogno che ha la Spagna di ritrovare la propria statura come nazione e della necessità di lavorare e fare sacrifici.

 

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