Che senso ha, sabato 26 novembre, regalare parte della propria spesa a uno sconosciuto, uno dei 120mila volontari della Rete Banco Alimentare, che la farà arrivare a uno o più persone tra il milione e 400mila indigenti, attraverso più di 8mila strutture caritative sostenute? Che senso ha farlo in un momento di crisi in cui per molti anche un euro è prezioso per sopperire ai problemi della disoccupazione o dei difficili bilanci familiari? E poi non ha forse più ragione chi, confidando sui poteri taumaturgici della finanza e della “politica dei giusti” ha ripetuto per anni che “non serve la carità, ci vuole la giustizia”? Sono domande a cui paradossalmente questa crisi mondiale aiuta a trovare risposta.
L’abbiamo visto: la finanza, anche quando non fa addirittura danno, da sola non ce la fa; i paesi del Terzo mondo che crescono di più diminuiscono il loro gap verso i paesi ricchi, ma aumentano di molto le differenze interne tra ricchi e poveri; i paesi sviluppati, oberati di debito pubblico, riescono sempre meno con la spesa pubblica a rendere più dignitosa la vita dei meno abbienti. Non bastano e non basteranno mai progetti politici ed economici. Aveva ragione Benedetto XVI quando nella Deus Caritas Est diceva: “La carità sarà sempre necessaria”.
“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e incappò nei briganti che lo spogliarono… un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione”. La nostra civiltà occidentale è intrisa, più ancora che dei segni di violenze e guerre, delle tracce del Buon samaritano, di San Martino che dona metà del suo mantello al povero che ne ha bisogno. La tradizione cristiana chiama tutto questo “carità”, dono di sé commosso per il bene dell’altro, perché non ci si può dimenticare che tutto quel che abbiamo ci è stato donato da un Dio che si è fatto uomo e ha accettato di soffrire e morire per salvarci.
A tal punto questa dimensione caratterizza la nostra civiltà, che anche sistemi di pensiero laici hanno dato vita a leghe di mutuo soccorso, cooperative, opere filantropiche, perché nella nostra civiltà è ancora fortemente radicata la coscienza che “un uomo vale di più di tutto l’universo”. Qualcosa di più di una generica solidarietà o di un semplice trasferimento di beni da una persona a un’altra, ma atti in cui, mossi dal desiderio di bene contenuto nel cuore, viene sacrificato qualcosa per rendere migliore la vita di altri uomini.
Certo, dobbiamo sperare e lottare per assetti politici, economici e finanziari più equi ed efficaci, ma senza questi gesti gli indigenti fra noi che non possono aspettare, vivranno peggio. E non sono solo i poveri ad aver bisogno di gesti così: ancora di più ne hanno bisogno coloro che li attuano, i buoni samaritani e anche i sacerdoti e i leviti di oggi che siamo un po’ tutti noi. Rispondendo con un gesto semplice al bisogno del prossimo sconosciuto, ci ricordiamo che ogni uomo è bisogno e desiderio infinito di cui l’indigenza materiale e spirituale sono solo segni.
E così si risveglia il nostro cuore intorpidito; si riapre la nostra ragione divenuta ottusa e incapace di creare, lottare, soffrire; rinasce in noi un desiderio non ridotto, fattore primo di ingegno, conoscenza, creatività, imprevedibile capacità di generare novità, ricchezza, bellezza, per sé e per gli altri. Così, la crisi diventa una sfida per un cambiamento, come recita un recente quartino di CL: da un gesto di carità come quello della Fondazione Banco Alimentare rinasce la speranza di un popolo perché possiamo essere più consapevoli di tutto quanto abbiamo ricevuto e riceviamo; e poi possiamo scoprire come questi gesti possono educare un popolo ad allargare l’orizzonte alle necessità di tutti.