Oggi verrà approvato alla Camera, in via definitiva il progetto di legge “Norme per la tutela della libertà d’impresa. Statuto delle Imprese”. Quando il progetto venne presentato, il Direttore de Il Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, scrisse un editoriale “Le buone ragioni degli indipendenti” (11 novembre 2009). Scriveva il Direttore: “C’è una generazione di produttori che merita di essere ascoltata con attenzione. Sono le piccole imprese e i professionisti di questo Paese. L’architrave di passioni e competenze che regge alla base il sistema economico; la miriade di cellule sociali che innerva la società civile. Autonomi, indipendenti. Ma anche invisibili. E spesso trattati male, come testimoniano le inchieste di Dario Di Vico”.



Lo Statuto delle imprese nasce esattamente dalla preoccupazione di rendere visibili questi milioni di cittadini invisibili che ogni giorno contribuiscono in modo decisivo alla creazione del Pil e dell’occupazione nel nostro Paese. La crisi ha reso evidente a tutti il valore del nostro sistema fatto di economia reale, realissima, e fatto di piccole imprese. Tuttavia, è assai facile tornare ai vecchi modelli dell’economia finanziaria, dimenticando quanto la crisi ha fatto percepire a tutti quanti: che quella italiana – per usare parole di Giorgio Vittadini – se è “anomalia, è anomalia virtuosa” e che i nostri guai non dipendono dal nostro sistema di imprenditoria diffusa, ma dal fatto di non credere fino in fondo in esso.



La stessa Europa, con lo Small Business Act, per la prima volta ha chiesto agli stati membri di pensare innanzitutto al piccolo (“Thinking small first”). Qualcuno definisce questa posizione come un ritorno al “piccolo è bello”: forse è giunta l’ora di riconoscere che “impresa è bello”, quando l’impresa è fatta del rischio che uomini e donne si assumono scommettendo sul proprio desiderio umano e sulla positività della realtà. Come sosteneva il grande economista Wilhelm Roepke, il principale teorico dell’economia sociale di mercato, criticando quella che definiva la “megalolatria” (l’idolatria di tutto quello che è grande), non c’è nulla di veramente grande se non è anche buono, perché solo ciò che è buono è anche grande. Lo Statuto delle imprese è innanzitutto il riconoscimento del valore non solo economico ma anche sociale e culturale dell’intrapresa, nella scia del principio di sussidiarietà.



Lo Statuto delle imprese contiene principi importanti. Tra questi, il principio di proporzionalità delle norme riferite alle imprese, ovvero che esse debbano tenere conto della dimensione dell’impresa, prevedendo per le piccole oneri minori e tempi di adeguamento più lunghi; il principio della certezza della norma che elimina l’eccessiva discrezionalità delle amministrazioni pubbliche e delle loro burocrazie. I principi inseriti in una legge sono importanti, perché nell’interpretazione prevalgono sulle norme di dettaglio. Ma lo Statuto, nei suoi 21 articoli, non contiene solo principi, come è stato detto da qualche commentatore.

Esso contiene anche norme immediatamente operative sui rapporti con la Pubblica amministrazione, sui ritardi dei pagamenti tra imprese e tra imprese e pubbliche amministrazioni, sugli appalti; crea riserve per gli incentivi per le micro e piccole imprese. Lo Statuto istituisce anche il Garante e la legge annuale per le micro, piccole e medie imprese. Ciò significa che ogni anno, il Parlamento dovrà dedicare una sessione legislativa – come accade per la legge di stabilità (ex-legge finanziaria) e per la legge comunitaria – alle piccole e medie imprese.

Qualcuno ha criticato lo Statuto delle imprese sostenendo che il suo limite consiste nell’essere “a costo zero”. Si potrebbe ribattere a questa obiezione citando il valore che ha avuto quarant’anni fa lo Statuto dei Lavoratori, che pure non prevedeva costi. Ma c’è un’altra ragione, e ben più importante: le piccole imprese non chiedono incentivi, chiedono di poter lavorare. Chiedono di non dover dedicare personale a una burocrazia insostenibile, ma alla produzione. Chiedono di poter concentrare le loro energie su un mercato globale sempre più turbolento, incerto e concorrenziale e di vivere in un ambiente in cui lo Stato non sia un intralcio e un assillo ulteriore. I nostri piccoli imprenditori chiedono, insomma, che si crei per loro quel contesto favorevole che è la prima e fondamentale condizione per la crescita, come ha ricordato la stessa Commissione europea nella Comunicazione sull’analisi annuale della crescita.

A questo mira lo Statuto delle imprese. La sua approvazione unanime, sia alla Camera che al Senato, è la migliore premessa perché ciò avvenga. Così come è auspicabile che il metodo che ha portato all’esame e all’approvazione dello Statuto – il metodo dell’Intergruppo per la Sussidiarietà – possa costituire il metodo con cui affrontare i provvedimenti urgenti e decisivi che attendono Governo e Parlamento nelle prossime settimane. Un metodo imposto dal bene comune, non dall’interesse di parte.