La crisi globale, che non concede tregua, con i mercati che puniscono il nostro Paese al punto da far percepire l’Italia non solo come in pericolo, ma come il pericolo, non è purtroppo soltanto dovuta a difficoltà di carattere economico e finanziario. “Ma talora messi da parte gli ideali più alti che appartengono alla città di lassù, dove la vittoria sarà stabile nell’eterna e somma pace, si ambiscono gli ideali di quaggiù perché sono ritenuti unici o preferiti a quelli che sono da ritenere più nobili. In tal caso necessariamente segue la crisi e aumenta se era già in atto” (Sant’Agostino – La città di Dio). Ciò che evidenziava con profondità di pensiero Agostino D’Ippona nella città di Dio è quella faccia della crisi odierna di cui nessuno parla e di cui ormai in pochi si accorgono, ma che sta lentamente e inesorabilmente forzando i cardini che hanno sorretto la società occidentale per secoli.
Agli inizi il progetto europeo era un meccanismo anti-ideologico che veniva offerto e messo a disposizione di una generazione sfortunata, perché si potesse riprendere un cammino in base al quale fosse possibile la convivenza civile, lo sviluppo e la pace. Oggi quell’approccio sta incontrando notevoli difficoltà. Per comprendere queste difficoltà bastano alcuni numeri. I cittadini dell’Unione europea sono 530 milioni, di cui 75 milioni hanno meno di 25 anni. Ci può sembrare un gran numero. In Egitto ci sono 80 milioni di abitanti, di cui 60 milioni hanno meno di 25 anni. L’Egitto da solo ha quasi tutti i giovani dell’Unione europea. Questo dato è imponente e significativo per quanto attiene i danni che ciò procura al nostro sviluppo, perché per far fronte alle necessità, ad esempio in materia di welfare, di un sistema complesso come quello europeo, 75 milioni di giovani sono pochi.
Questo è solo un esempio dei tanti ostacoli che impediscono all’Europa di ripartire. Ci sono anche ostacoli prodotti sul versante istituzionale. C’è un florilegio di azioni politiche che sono il riflesso dell’egoismo inteso come cuore della propria offerta politica. Spesso questo egoismo fa rima con populismo. Il populismo viene sposato a turno da destra e da sinistra, perché quando in termini politici si è costretti a cavalcare le paure è perché si fa fatica a trovare soluzioni alternative. Se noi non rigiochiamo la partita secondo una concezione che è profondamente segnata da una relazionalità possibile del bene comune, che è l’affermazione di un ideale talmente grande che da soddisfare il bisogno più vero del cuore di ognuno, torneremo a farci la guerra, come ha ricordato pochi giorni fa nell’aula di Strasburgo la presidenza polacca dell’Unione europea tra lo stupore dei presenti.
Che cosa vuol dire che un bene comune è condiviso da tutti? Perché la pace è percepita come un bene comune? Perché se viene meno anche per uno solo non c’è più per nessuno. Come scrive Platone nel Convivio: “Sono amici coloro che guardandosi negli occhi riconoscono la presenza di un dio”. E qual è il dio che tiene insieme gli uomini? È certo il dio della trascendenza. È certo il dio di Abramo, Isacco, Giacobbe. Nella quotidianità, come nelle circostanze più avverse, l’esperienza della presenza di quel Dio interroga e giudica. Promuove una ragione che se usata per aprirsi alla totalità della realtà ci consente di stare insieme e, magari, di rimetterci in discussione.
Se non recupereremo urgentemente questo tipo di percezione noi continueremo a partecipare del progetto europeo convinti che tutto si risolva nell’avere 100 milioni di euro in più per le nostre nazioni. Ben diversa è invece la prospettiva prefigurata l’altro ieri da Benedetto XVI che auspica un ritrovarsi fecondo dei capi di Stato e di Governo protagonisti del G20 purchè quel raduno si ponga come obiettivo “di uno sviluppo autenticamente umano e integrale”.