Mentre ancora infuria il dibattito sulla “democrazia” sospesa in Italia e sulla costituzionalità del Governo Monti, l’autorevole The Economist ha pubblicato, proprio in questi giorni, il Democracy Index 2011: un bollettino sullo stato di salute della democrazia nel mondo. Il titolo è Democracy under stress – la “democrazia è sotto stress” – e in effetti i dati sono preoccupanti.

Il rapporto suddivide gli stati del mondo in quattro categorie – democrazie piene, democrazie imperfette, regimi ibridi e regimi autoritari -. Ebbene nel 2011 – secondo l’Economist – nel mondo sarebbero solo 25 le democrazie piene, il che sta a dire che al giorno d’oggi solo un esiguo 11% della popolazione del pianeta vive in democrazie degne di questo nome. Ben 53 sono le democrazie imperfette (e tra queste, manco a dirlo, l’Italia); ma il dato più impressionante è che nel 2011 oltre la metà degli abitanti del mondo vive in stati non democratici (il 14% in regimi ibridi e il 37,6% in stati autoritari).

La democrazia piena – questa è dunque la notizia – resta ancora oggi molto più un’utopia che una realizzazione. O, detto altrimenti, la stragrande maggioranza delle democrazie che funzionano, in realtà, sono imperfette. Il dato è ancora più impressionante se ci soffermiamo sul vecchio continente. L’Europa continua a essere il continente più democratico (ben 6 delle prime 10 democrazie appartengono all’Europa occidentale, ma “significativamente” di queste 6 solo la Finlandia appartiene all’Eurozona).

Ma, attenzione, la “qualità” democratica dei paesi europei sta crollando: se paragoniamo i dati 2011 a quelli del 2008 ci accorgiamo che ben 15 paesi europei su 21 sono arretrati nella loro posizione nell’Indice: quattro, in particolare (Francia, Italia, Grecia e Portogallo), sono addirittura retrocessi dalla categoria democrazie “piene” a quella di democrazie “imperfette”. E neanche i paesi europei rimasti in “serie A” possono cantare vittoria se è vero che la Germania (n. 14) ha un tasso record di astensionismo alle elezioni e “il livello di partecipazione politica nel Regno Unito (n. 18) è tra i peggiori dei paesi sviluppati”.

Gli addetti ai lavori potrebbero dire: “nulla di nuovo!” È noto, infatti, quantomeno dagli anni ‘70 che la “qualità della democrazia” è molto variabile; c’è un punto, però, sul quale il Rapporto si sofferma e che merita, secondo me, particolare attenzione: il ruolo della crisi finanziaria globale in questo “decadimento” democratico. Emerge, infatti, un curioso paradosso: quella stessa condizione di crisi economica che in alcune aree del mondo – pensiamo alla “primavera araba” – è il principale propellente della domanda di democrazia, in altri – ad esempio l’Europa – rappresenta la causa che ne sta minando le fondamenta (l’Italia e la Grecia sono citati come casi in cui “drammaticamente” si è passato da governi politici eletti dal popolo a governi di “tecnocrati”).

Senza qualcosa in grado di riaccendere, nella persona prima che nelle istituzioni, nella società prima che nello Stato, una reale domanda individuale e collettiva di partecipazione e responsabilità, anche una delle più grandi conquiste del mondo occidentale – la democrazia – oggi appare seriamente a rischio.

È fuor di dubbio che questi Rapporti sono tutti di per sé discutibili – dipendono, infatti, dagli indicatori che si scelgono e da come si effettuano le misure -, ma bisogna ammettere che anche senza le autorevoli analisi dell’Economist, oggi è palpabile la sensazione di quanto la democrazia in Europa sia sotto stress. L’impressione è di essere di fronte a democrazie “sazie”, ormai appagate e senza più spinta. E quello che più manca alle nostre democrazie “sazie” è proprio quella “fame” di partecipazione e responsabilità che invece ci stupisce nei nostri vicini che vivono nella sponda sud del Mediterraneo.