Tutti i media hanno ricordato Vaclav Havel, grande drammaturgo, dissidente, firmatario di “Charta 77”, primo Presidente della Cecoslovacchia finalmente libera dal giogo sovietico e poi, in seguito alla scissione della Slovacchia che egli aveva cercato di sventare in ogni modo, anche primo Presidente della nuova Repubblica Ceca. Non sono certo, però, che il cuore del suo messaggio, della sua stessa esperienza umana sia stato percepito in tutta la pertinenza col nostro attuale vissuto quotidiano.
Chi ha letto lo splendido Il potere dei senza potere non può dimenticare l’aria di assoluta semplicità, di freschezza che traspare da quelle pagine. Havel dice con disarmante franchezza che il potere comunista (e chiunque lo abbia conosciuto anche solo di striscio sa di che razza di moloch stiamo parlando) in fondo è debole di fronte a un avversario molto piccino e quasi invisibile. Un avversario che non si atteggia a eroe melodrammatico uso a grandi gesti, pose oratorie, dichiarazioni roboanti. Il granellino di sabbia, fragilissimo, che pure inceppa l’immane meccanismo del totalitarismo è la coscienza della persona.
Quella del verduraio che decide di non mettere il cartello di una propaganda in cui non crede in cima alla catasta di mele in vendita nella sua bancarella. Piccola cosa, direte, ma di una qualità incommensurabile con tutti i macigni che costituiscono il potere. E il potere sovietico è stato sgretolato anche da tutte queste coscienze che non si sono piegate.
Ma questo non vale solo di fronte ai poteri totalitari. Havel stesso, da Presidente, ha più volte osservato che parecchi successori del comunismo ne hanno ereditato, non l’ideologia, ma il modo di pensare. Se i comunisti dicevano che le ferree leggi della storia non potevano che condurre al socialismo e tutti vi dovevano soggiacere, nuovi timonieri attribuiscono lo stesso rigido determinismo alle leggi economiche del mercato.
Non c’è molta differenza. Nell’un caso e nell’altro la realtà sociale è una entità astratta ultimamente indipendente da quella che Havel chiamava la scelta morale dell’individuo. Ma così per ogni piccolo verduraio non resterebbe che chinare la testa e rinchiudersi in una dimensione esclusivamente privata. Se non che, anche riguardo al nostro privato, stuoli di psicologi ed esperti vari vengono a dirci che nei rapporti affettivi, nei legami familiari, nelle relazioni lavorative e amicali noi siamo in fondo soggetti a leggi inesorabili; non possiamo, dicono, far altro che esporre sulla nostra frutta il cartello che quelle leggi hanno stabilito per noi.
Quanti discorsi sulla crisi producono la strana sensazione che non ci sia nulla da fare, che la sproporzione tra il massiccio potere delle leggi immutabili e il piccolo potere della mia coscienza che non si rassegna è troppo grande ed è meglio rassegnarsi. La vicenda umana di Havel sta a dimostrare che non è così.
Havel non era cristiano, ma quando ha dovuto spiegare come mai può accadere che il potere dei senza potere abbatta l’apparentemente invincibile potere del totalitarismo ha usato parole che solo un uomo dalla ragione spalancata poteva trovare. Un anno dopo la caduta del muro Giovanni Paolo II si recò a Praga, cosa che tutti avrebbero reputato impossibile fino a pochi mesi prima. Havel commentò il fatto così: «Non so cosa sia un miracolo. Ma so che quello che stiamo vivendo adesso è un miracolo».
Mentre il meccanismo del potere è noiosamente ripetitivo, il potere dei senza potere vive di miracoli.