I rischi del dopo Mubarak

La transizione dell’Egitto va guidata. I futuri equilibri dell’area sono troppo importanti :non ci si può permettere che il potere cada nelle mani di sciacalli

Se c’è una certezza rispetto alle recenti traversie in cui versa l’Egitto, che da 18 giorni chiede a gran voce la cacciata del Presidente Hosni Mubarak, questa è che il destino della rivoluzione egiziana non lascerà certo indifferenti gli altri paesi dell’area.

L’Egitto è un paese che da sempre esercita un’influenza importante nei confronti dei paesi dell’area del Mediterraneo: tralasciando l’impero degli antichi egizi, basta dare uno sguardo agli ultimi cinquant’anni, dal Governo Nasser a quello di Sadat, che in piena guerra fredda agivano spesso come ago della bilancia nella politica mediorientale dei due blocchi. Chi arriverà dopo Mubarak sarà caricato di una responsabilità enorme, in un momento di tribolazione generale, che si sta propagando a macchia d’olio.



Come nel caso della Tunisia, è positivo vedere che tanta gente manifesta in nome della libertà e della democrazia: il rovesciamento di regime, da autoritario a democratico, deve essere accompagnato da riforme che possano davvero convincere il popolo che in democrazia si vive meglio e si è più liberi.

Non ci sono dubbi sulla spontaneità e sulla bontà delle intenzioni di chi manifesta. Così come è condivisibile la premura di Stati Uniti ed Europa (purtroppo ancora tante voci, anziché una sola) affinché la transizione avvenga in tempi brevi.



La transizione va però guidata: i futuri equilibri dell’area sono troppo importanti. Non ci si può permettere che il potere cada nelle mani di sciacalli e fondamentalisti. Il terrorismo, come dimostrano i recenti attacchi nei quali sono stati uccisi molti cristiani, è vivo e vegeto. Chiunque sia chiamato ad assumere il potere dovrà tenerlo presente, trattandosi di una variabile in grado di condizionare lo scenario anche al di là delle attuali tensioni sociali e politiche.

Un’attenzione particolare a queste sfumature è parte integrante del compito dell’Unione europea di difendere la libertà e la democrazia. Dobbiamo però dotarci degli strumenti adeguati, ammettendo innanzitutto di non avere avuto in tutti questi anni una vera strategia per il Mediterraneo.



Il cosiddetto “Processo di Barcellona” e la recentissima “Unione per il Mediterraneo” sono delle finzioni che non hanno realizzato nulla, mentre dovrebbero essere la premessa per una vera azione strategica in quell’area, che non si limiti al contenimento dell’immigrazione clandestina e a relazioni politiche limitate alla ricerca di un argine verso le teocrazie.

 

In fondo, quello a cui si ribella il popolo egiziano è una povertà non solo materiale, favorita da una gestione illiberale: lasciare che il paese soccomba ancora una volta sotto una nuova “tirannia laica” oppure, al contrario, una “teocrazia islamista”, significa allontanarci in maniera pressoché irreversibile dagli interessi di quei popoli.

 

Il sostegno a uno stato di diritto, basato sulla stabilità, sulla pace e sulla democrazia è l’unico obiettivo auspicabile. Una riforma radicale che dovrebbe costituire un modello per tutti gli altri paesi mediorientali, dove l’agitazione aumenta di pari passo con l’escalation egiziana.

 

Viene fugato l’ultimo dei luoghi comuni: pensare, cioè, che la democrazia in quanto tale non interessi gli arabi, non sia in sintonia con la loro cultura. È vero invece che mano a mano che si afferma la nozione e il valore della persona, l’intera società dei paesi arabi ricomprende in modo creativo e sorprendente la propria storia e il proprio compito.

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