Questo è un frammento di un lunghissimo romanzo che vado scrivendo da anni. Lo offro ai lettori de IlSussidiario.net perché non sarebbe giusto dimenticarci di San Valentino solo perché i giorni che viviamo sono tanto duri.

Accadde in un bistrot di Rue des Ecoles.
Una scena insolita si stava svolgendo al tavolo accanto al mio. Alcune ragazze che potevano avere al massimo tre o quattro anni meno di me si stringevano intorno a qualcuno che non risultava visibile dalla posizione in cui mi trovavo. Saranno state sei, sette, ed erano tutte molto eccitate, come se proprio lì, sotto i loro occhi, stesse accadendo qualcosa di sbalorditivo. Una di loro, più bassa delle altre e molto graziosa, ogni tanto si metteva a saltellare per vedere qualcosa oltre la testa della compagna che le stava davanti. Fui attratto, lo ammetto, dalle sue gambe lisce e sottili, ma il ricordo di quell’attrazione pochi istanti più tardi mi sarebbe sembrato lontano, come il documento di un’altra fase della mia vita.

Le ragazze erano molto educate, ma c’era qualcosa che le faceva tremare. Dal gruppo partiva di tanto in tanto una domanda, a volte un’altra voce femminile, fioca e quasi sepolta dietro quel muro umano, sussurrava una battuta, e allora il gruppo scoppiava a ridere con un’allegria eccessiva e affrettata. Si sentiva la parola professeur, ma non si sentiva nessuna voce che non appartenesse a una persona molto giovane. Volli alzarmi, allora, con il pretesto di leggere il ménu scritto col gesso su una lavagna appoggiata su un cavalletto a sinistra dell’ingresso, e da quel punto di osservazione potei vedere chi c’era dietro quelle ragazze. C’era una ragazza molto più giovane di loro, una biondina non particolarmente bella, poco più che una bambina. Era lei che, con voce flemmatica, rispondeva alle domande delle ragazze, anche se continuavo a non capire cosa significasse, in tutto questo, la parola professeur. Sempre fingendo grande interesse per il ménu non smisi di sbirciare.

A un certo momento una ragazza che mi copriva la visuale decise che da un’altra posizione avrebbe compreso meglio, così potei vedere bene quello che la bambina stava facendo. Con mano svogliata, l’occhio quasi spento, quella magrolina bionda tracciava su grandi fogli, con sicurezza sbalorditiva, segni grafici ed equazioni che lasciavano a bocca aperta tutte quelle belle ragazze, che alla fine se ne andarono ringraziandola una a una e quasi inchinandosi davanti a lei, che le salutava con la mano, piano piano, senza mai mutare l’espressione del viso. Vidi le ragazze, ormai uscite, attraverso i vetri del bistrot, mentre se ne andavano. La loro eccitazione era ancora evidente: si tenevano a braccetto, saltellavano, ridevano, stringevano i pugni, pestavano per terra. E sono certo che, una volta tanto, non parlavano di ragazzi. Chi lo sa dove saranno quelle ragazze adesso, se esistono ancora, se Parigi esiste ancora. Ma fossero anche morte e Parigi fosse sprofondata, nulla ha potuto rubare loro l’emozione di quel momento.

Non appena fu sola, la ragazzina ordinò del caffelatte e una baguette con prosciutto e burro.
Io, che non riuscivo a capacitarmi di quello che avevo appena visto, continuavo a guardare dalla sua parte, tanto che lei si sentì costretta a salutarmi con la sua voce atona. Sollevando la mano non so se per salutarmi meglio o per nascondere la bocca. Aveva un visino grazioso, il naso abbastanza grande per una faccia così esile, e doveva sentirsi molto brutta, perlomeno in quell’istante.
Bonsoir.
Dato che non parlavo, disse ancora qualcosa lei. Si scusò per l’agitazione di poc’anzi, ma quelle ragazze così adorabili erano anche delle tali confusionarie.
Vous aimez le jambon? Vous en voulez?
Risposi di sì, e lei, con la sua solita flemma, si alzò, andò al banco e ordinò un panino anche per me. Sarà stata alta come me, cioè sul metro e ottanta, sottile e un po’ sgraziata, per nulla flessuosa, l’andatura da paysan, i capelli lisci alle spalle di un biondo pallido e un po’ smorto, e portava un abitino a righe verticali, che la rendevano ancora più alta e magra di quanto già non fosse.

Quando riuscii a parlare, dopo averla ringraziata per il panino (che non avrei toccato) le chiesi di spiegarmi quello che avevo visto.
Lei era tornata a sedersi al solito posto.
Rispose che non c’era niente, rien du tout, da spiegare. Il problema era, come sempre di questa stagione, la scarsità di aule. Per le esercitazioni è sempre un disastro, disse: le aule erano tutte occupate per lezioni completamente inutili, perciò aveva pregato Genny, Jeanine, Simone, Claude, Pamela, Selima e Edith di raggiungerle lì – questo è il mio bistrot, dove vengo sempre, io mi trovo bene, è un posto semplice, non trova?
Dopo avermi detto, su mia richiesta, la sua età, mi disse, sempre su mia richiesta, di cosa si occupava nella vita. Chantal, questo il suo nome, non frequentava il primo o al massimo il secondo anno di liceo, come avrebbe dovuto fare una ragazza di quindici anni, ma insegnava all’università.

Come fa a non piacerle il prosciutto? disse, vedendo che non toccavo il mio panino. Io mangio solo panini al prosciutto, sa? No, anche dell’insalata, ma non sempre. E la mattina un caffè e un uovo, à la coque.
Le domandai scusa, ma quello che mi stava dicendo a proposito di sé stessa costituiva un nutrimento più che sufficiente per un curioso come me. Intendevo riferirmi, naturalmente, al suo lavoro, ma forse lei credette che parlassi dei panini e delle uova.
Perché non prende il suo panino e viene al mio tavolo? E’ un po’ ridicolo parlarsi da un tavolo all’altro, disse, tossendo e domandando scusa (pensai che questo fosse il suo modo di ridere).

Chantal non cambiava mai espressione, e anche la sua voce filava dritta dritta, senza sussulti. Non doveva essere facile alle emozioni, pensai in un primo momento. Poi però ebbi la ventura di guardarla dritto negli occhi per qualche secondo più del necessario. Lei ebbe un leggerissimo sorriso e d’istinto alzò la sinistra per spostare una ciocca di capelli che le era caduta sulla fronte. Capii allora che forse conosceva già la passione, magari in un angolo nascosto e oscuro di sé, e che forse lei apparteneva soltanto a quella fortunata cerchia di persone che sanno in ogni istante quello che devono dire e non dire, il che rende assai più misurata l’espressione delle emozioni.
Se ho capito bene, dissi alla fine, lei è un genio.

Mi resi conto di non averlo detto perché lo pensavo (anche se lo pensavo), ma perché desideravo allontanare qualcosa da me.
Chantal fece un gesto con la mano, come quando si manda via un moscerino. Non occorre il minimo genio, rispose, per fare della matematica.
Allora, dissi cercando di farla ridere, ci vorrà del genio per non capirci nulla, come me.
Chantal non rise affatto. Avrei presto conosciuto questa sua disposizione a prendere sul serio qualunque frase.
Bisogna solo avere molta voglia di stare seduti, disse.
Presto avrei saputo anche che molti studenti la amavano follemente, come le sue sette innamorate, ma che molti, molti altri erano addirittura terrorizzati da lei. 

Volli pagare io (“non capisco proprio” rispondeva lei, ma senza insistere), dopo di che le proposi di accompagnarla a casa. Disse che le dispiaceva andare, perché lì si stava bene, naturalmente a quell’ora, perché non si poteva immaginare la quantità di gente che avrebbe riempito il locale una o due ore più tardi. Secondo me Chantal sopravvalutava il suo amato bistrot.
Il suo impermeabile beige se ne stava appoggiato a uno schienale. Si aggiustò il collo arrotondato della camicetta su quello della blusa d’angora celestina, rifiutò il mio aiuto a indossare il soprabito, liberò i capelli dorati che erano rimasti imprigionati sotto il collo dello stesso, poi si fermò sulla porta del bistrot e mi diede un’occhiata, dalle punte dei piedi alla cima dei capelli e di nuovo in fondo ai piedi, dalla quale mi sentii attraversato come da una radiografia.

Alla fine disse di sì, che potevo accompagnarla, anche se abitava un po’ lontano, dopo Les Invalides. Durante la nostra permanenza nel bistrot doveva aver piovuto ancora, ma ora la pioggia aveva smesso di cadere, e davanti all’orizzonte la cappa plumbea del cielo s’interrompeva, proprio come prima che entrassi nel bistrot ma ancora più vicino a noi, per lasciare posto a una sottilissima striscia celeste e poi al rosso denso del tramonto, dentro il quale la Tour Eiffel, che vedemmo profilarsi di lì a poco, sembrava nuotare come dentro un mare fatto di tuorlo d’uovo.
Scendemmo lungo Rue St. Jacques, la voie des mammouth, poi ci incamminammo lungo Boul’ St. Germain fino all’incrocio con Rue de l’Université. Parlammo di letteratura (la sua passione per Victor Hugo fu il vero avant-propos a quanto avrei conosciuto  di lei in seguito). Chantal aveva letto anche Manzoni. Disse che I Promessi Sposi erano un’eccellente guida di Milano a uso dei francesi, e che lei capiva i suoi colleghi milanesi grazie a quel libro. Passammo davanti agli Invalides, poi davanti a Palais Bourbon, che a Chantal metteva tristezza perché, disse, le sembrava di vedere tutte le ingiustizie del mondo raccogliersi lì, in quella piazza così bella. Poco dopo ridemmo sull’incrocio con  la piccola e discreta Rue Nicot, una via signorile dedicata a un uomo divenuto famoso per qualcosa che adesso – con grande rabbia dei parigini – era stato vietato quasi ovunque: il tabacco. Mi indicò l’insegna di un bar lì sull’angolo, “Tabac de l’université”, dove però non si vendeva più tabacco. Disse che nessuno, all’Hotel de Ville, se l’era sentita di cambiare il nome alla via: c’era da temere una sommossa. Dall’eroe Nicot il discorso passò direttamente a un’altra eroina, Giovanna D’Arco, progenitrice di tutta la scorrettezza politica dei francesi e del loro complesso di superiorità, che è o comunque era  anche un complesso di inferiorità. Disse che tutti in Francia, anche gli atei più atei, amavano Sainte Jeanne, perché nessuno a parte Dio e il diavolo sa come sono fatti i Francesi, gente complicata, mentre tutti sanno come vorrebbero essere: come Sainte Jeanne, appunto. Ancora oggi la Francia è piena, disse, di Jeanne e Janine e Janette, di Jane e di Janet (“l’inglese ha fatto breccia anche da noi”) e perfino, a sud, di molte Juanite.

E così, un po’ parlando e un po’ ridendo, giungemmo in Avenue Rapp, al civico trentatré, dove abitava lei. Suo padre si chiamava Pierre Laurent Terrassier e faceva l’ingegnere ma possedeva anche un piccolo allevamento di asini, di cui era innamorato; sua madre si chiamava Cécilie e non suonava nessuno strumento musicale, ma era la miglior cuoca di tutta Parigi. E lei con papà e mamma andava a messa tutte le mattine alle sette nella chiesetta di un convento lì vicino. Adesso il cielo dalla parte della Senna era tutto sgombro, c’era perfino qualche stella, e la Torre Eiffel gravava nella sua incomprensibile enormità a pochi passi da noi, improvvisamente pesantissima dopo essere stata leggera per chilometri e chilometri.
Quando, sull’ingresso della sua casa, la salutai, stringendo quella sua manina ossuta e bianchissima, mi accorsi di essermi perdutamente innamorato di lei.