La storia del pensiero occidentale ci ha consegnato un’idea, che alcuni tra noi hanno appreso sin dai banchi del liceo: l’Essere, la perfezione ontologica, è uno e indivisibile, e tra gli attributi delle realtà terrene, storiche, quello dell’unità – per quanto fragile, contingente possa apparire – è sempre apprezzabile, perché partecipa, secondo il suo ordine e grado, della consistenza ultima delle cose. L’unità è desiderabile in tutto, perché fondamento di ogni altra qualità e quantità e germe di armonia, pace, bellezza e fecondità.



L’unità della persona (la “frattura dell’io” o schizofrenia è una patologia devastante per il soggetto), l’unità della famiglia, di un gruppo di amici o di soci, di un’azienda, di una comunità o di un popolo è sempre un bene: chi ne teorizza o pratica la fine lavora per distruggere, non per edificare. Così è anche di una nazione, nella misura in cui essa riassume e serve, storicamente e geograficamente, la vita personale e sociale di generazioni di uomini e donne che ad essa appartengono per nascita o per adozione. «Ogni regno diviso in se stesso va in rovina» (Lc 11, 17), e le vicende di diverse regioni del mondo, anche recenti, rendono testimonianza a questa frase del Vangelo.



La ricorrenza dei 150 anni dell’unità d’Italia, se divorata da una retorica celebrativa che esalta i frutti dell’albero mentre ne recide le radici, o bruciata in un’astiosa contrapposizione politica che trasforma la storia di ieri in un campo di battaglia di oggi, è un’occasione perduta per tutti. Per i più giovani, che sono chiamati a guadagnare, a far diventare un proprio giudizio di ragione, ciò che hanno ricevuto dai loro padri e dai loro maestri e portano sulle spalle, nello zaino con il quale ognuno affronta la vita personale e sociale. Ma anche per noi. L’unità nazionale non l’hanno costruita loro e neppure noi, che apparteniamo alla generazione precedente: ci è stata data, e con essa dobbiamo paragonarci tutti i giorni, dal linguaggio all’arte, dalla scuola alla sanità, dai trasporti alla finanza, dal lavoro alle pensioni. Come tutta la realtà, essa c’è anche se non è uscita dalle nostre mani e dalla nostra mente, e ci sfida ogni momento, provocando la ragione ad abbracciarla, a “com-prenderla” secondo tutta la sua ampiezza e profondità.



Qual è, dunque, la sfida che l’unità del nostro Paese lancia? Anzitutto che l’unità è un bene per ciascuno e per tutti, in qualunque dimensione della vita essa si manifesti. Non vi è piega della realtà nella quale e per la quale la divisione, la spaccatura sia positiva (in alcune circostanze, può venire subita, tollerata, mai desiderata). Il nostro cuore è fatto per l’unità, non per la frammentazione, per il tutto, non per le parti. Un bene per guadagnare il quale uomini e donne hanno sacrificato la loro vita per la famiglia, i figli, gli amici, il lavoro, la comunità, la società o la patria. Un ideale non astratto, ma storico, concreto, che ha inciso nella carne e nel sangue (quanti canti d’amore, popolari o dei soldati lo evocano!). Non si può comprendere l’unità, a qualunque livello essa sia riconosciuta e custodita senza un ideale. Non una morta retorica del passato, ma un ideale vivo nel presente può far comprendere oggi il bene dell’unità.

 

La difficoltà nel proporre e nell’accogliere un momento di memoria dedicato all’unità d’Italia nasce dall’impossibilità ad immedesimarsi in un ideale che oggi non è più vissuto e affermato come un bene: l’unità di un popolo, che ha le sue radici nell’unità della persona, dell’“io”, nella coscienza di appartenere tutti ad una storia che non abbiamo costruito noi, ma che ci precede, ci plasma e ci trascende. Una storia che il senso religioso degli italiani – come quello dei cittadini di tutti i Paesi europei e di numerosi extraeuropei – ha vissuto nella forma compiuta dell’avvenimento cristiano, del cristianesimo di cui è tessuta la cultura, l’operosità, l’arte, la vita sociale e tutta la storia dell’Occidente. Resta ancora da essere approfondita una documentata ricognizione storica del ruolo del cattolicesimo e della Chiesa nell’unità d’Italia, che una lettura superficiale e pregiudiziale ha voluto solo come negativo o, tutt’al più, passivo, dimenticando il decisivo contributo della dottrina sociale della Chiesa e delle grandi figure di laici cattolici nella formazione di una coscienza e di una cultura del bene comune, senza la quale non vi può essere autentica e stabile unità di popolo e di nazione.

L’unità è qualcosa che precede ogni intenzione e azione per affermarla e costruirla, in qualunque forma dell’esistenza degli uomini essa si manifesti. È un dato originario e originante, non derivato o secondario. Per questo occorre riconoscerla nella sua radice per poterla coltivare nella pianta. E come ogni aspetto della realtà – che deve essere “riconquistata” ogni mattina quando ci si sveglia e si spalancano gli occhi sul mondo – richiede un’educazione, un’introduzione o una “re-introduzione” ad essa, senza la quale ciò che sembrava essere acquisito è invece andato perduto.

 

Chi si scandalizza del fatto che molti ragazzi e i giovani sembrano disinteressati o infastiditi alla sola idea che si parli di storia e di unità d’Italia anche al di fuori dei libri e dei banchi di scuola, sembra dimenticare che l’emergenza più grande che la “questione giovanile” pone agli adulti e a tutta la società è quella educativa, che riassume in sé ogni altra urgenza della prima stagione della vita. Senza educazione non c’è maturità di coscienza individuale e di popolo, ancor meno quella di nazione, che delle prime è l’espressione storicamente più formale e istituzionale.

 

Alcuni giorni fa, commentano sulle colonne de La Stampa l’espressione del Presidente Napolitano che occorre una «riflessione seria e non acritica» su «tutto quel che ci unisce», Marco Rossi-Doria scrive che «è bene partire dalla scuola». Al posto di occuparci d’altro, se vogliamo inscrivere i 150 anni dell’unità d’Italia in uno sguardo politico prospettico e non solo retrospettivo, «faremmo bene tutti a soffermarci di più e meglio» sull’educazione, famiglie e scuola in testa, ricordando che «dai tempi di Cavour, i politici savi dell’Italia unita, il movimento sindacale, gli imprenditori, il pensiero meridionalista hanno saputo superare divisioni, rigidità e interessi di parte quando si sono occupati di queste cose. Con spirito rivolto alla comunità nazionale e a quella locale, in modo concreto, evitando sprechi e concentrandosi sui risultati. È ora di ricominciare».

 

Sì, è davvero ora di abbandonare ciò che divide per ripartire da ciò che unisce, quella unità che precede tutti e tutto e che non ci possiamo dare da soli, ma solo riconoscere come un fatto, il frutto di un avvenimento storico, senza la quale non è possibile educare. E senza educazione non c’è presente né futuro per l’Italia, ma solo passato.