In questo scorcio di 2011 siamo messi davanti a grandi cambiamenti. Riuniti a Davos i potenti della terra si accorgono che probabilmente ciò che è sempre stato considerato il problema numero 1, la diseguaglianza tra Paesi ricchi e Paesi poveri, sta passando in secondo piano rispetto alla diseguaglianza tra uomini ricchi e uomini poveri all’interno degli stessi Paesi.
In più, si è scoperto che un gruppo di Paesi classificati come ultimi degli ultimi, e cioè Etiopia, Mozambico, Angola, Uganda e Tanzania (e poi anche Vietnam persino Bangladesh) sono in piena corsa economica, con tassi di crescita che partono dal 6% per arrivare all’8,5 (la zona euro è all’1,5). Chi parte da lontano ha molti più margini, è ovvio, ma l’Occidente deve abituarsi a cambiare parametri: non c’è solo il Bric a correre, ma anche le nuove tigri africane e asiatiche. Niente più può essere dato per scontato. “C’è un area del mondo –spiega l’economista Moises Naim- che non ha conosciuto le catastrofi del XXI secolo, dalle Torri Gemelle alla recessione”. Ma il cambiamento più clamoroso è la rivolta del mondo arabo.
Clamoroso perché totalmente inaspettato e repentino. Su questo uno stucchevole risvolto è rappresentato dal dibattito tra politologi sulle ragioni per cui i medesimi politologi non abbiano previsto avvenimenti di tale portata (lo stesso interrogativo che attanaglia gli economisti a proposito della crisi finanziaria). Che la realtà abbia preso il sopravvento sulle expertises è infatti piuttosto spiacevole.
Il regime tunisino, solidissimo fino a ieri, si è dissolto in due settimane. L’era di Mubarak, inclusa la sua proiezione nel futuro attraverso il figlio, è seppellita per sempre, qualunque cosa accada nelle prossime ore.
Il re di Giordania corre frettolosamente ai ripari cambiando il governo, la Siria restringe i già evanescenti spazi di libertà, temono Libia e Marocco, trema la terra sotto i piedi dei governanti di Algeria e Yemen, mentre i regnanti sauditi possono godersi lo spettacolo, per ora: i poveri e i senza diritti sono gli stranieri, difficile che si trasformino in minaccia.
Sopportata troppo a lungo, l’infelicità degli arabi, secondo la fulminante espressione di Samir Kassir (il giornalista assassinato in Libano) ha generato la rabbia degli arabi. I catalizzatori dello scontento? I social network, è stato detto, le leadership improvvisate e prepolitiche, il passaparola del desiderio giovanile.
Ma più di tutto va messo in luce il fenomeno arabo degli ultimi anni cominciato con Al Jazeera e seguito poi da svariati altri canali televisivi satellitari: penetranti e capillari strumenti di una globalizzazione araba sovranazionale, poco controllabile da governi e regimi che telegiornale dopo telegiornale a milioni di famiglie arabe dotate di parabole (quasi tutte, come l’Albania degli anni ’90, ricordate?) sono apparsi vecchi, ammuffiti, parassiti. La forza delle immagini e la “brutalità” insita nel nuovo linguaggio dell’informazione tv “libera” (ricordiamo bene i danni efferati provocati dalle tv arabe dopo il discorso di Ratisbona di Benedetto XVI) hanno proiettato intere società dallo stato di minorità all’iperspazio.
Oggi l’intero mondo arabo è entrato in una fase storica nuova, che per chi ama periodicizzare potrebbe essere la sesta degli ultimi sessanta anni: lo shock seguito alla nascita dello Stato d’Israele, la conquista del potere da parte di Nasser (1952), la catastrofe della guerra del ’67, la frattura cristiano-musulmana aperta dalla guerra libanese e mai più ricomposta (1975 e oltre), l’Iran khomeinista (1979) e il diffondersi inesorabile dell’islamismo. In queste settimane l’esplosione devastante della realtà “così come è”, senza il “filtro” della politica e dell’ideologia, porta con sé una sfida pazzesca a tutti, dai risultati davvero imprevedibili.
Generali di transizione, Fratelli Musulmani, democrazie nascenti, un nuovo incontro tra cristiani e musulmani secondo lo spirito del CairoMeeting?
Tutto sta cambiando nel Sud del mondo, l’Africa riprende vita e gli arabi se la riconquistano. All’Occidente non basterà aggiornare la propria politica.