Jean Leclercq – qualche giorno fa si è celebrato il centenario della sua nascita – era un monaco benedettino ed è stato uno dei massimi studiosi del pensiero e della spiritualità monastica del Medioevo.

A lui si deve un decisivo allargamento di prospettiva in questi studi; egli, infatti, ha dato un contributo fondamentale alla riscoperta della «teologia monastica», cioè di quella che non si faceva nelle università e nelle scuole – «scolastica» – bensì nei monasteri. Una teologia che non punta prioritariamente all’elaborazione teorica e sistematica, ma all’immedesimazione esistenziale, al cammino spirituale.

Nel suo capolavoro Cultura umanistica e desiderio di Dio (fortunatamente ripubblicato in Italia nel 2002) Leclercq ricorda che la molla che spingeva tanti uomini del medioevo a farsi monaci era, in sintonia con l’impostazione di san Benedetto, esattamente il «desiderio di Dio». A questo era finalizzato ogni aspetto della vita, compreso lo studio (l’originale francese del titolo non parla di «cultura umanistica», ma di un più chiaro amour des lettres, che potremmo leggere come «passione per la conoscenza»).

Nel crogiuolo di questi due elementi, presi nel giusto ordine gerarchico, è fiorita, la grande sapienza di san Bernardo di Chiaravalle, uno degli autori più studiati da Leclercq, e di molti altri da lui riscoperti.

Cultura umanistica e desiderio di Dio, spiegando formazione, fonti e frutti della cultura monastica, è ricchissimo di spunti d’insegnamento anche per noi oggi. Esemplifico riportando alcuni brani in cui Leclercq illustra che cosa significasse per i monaci medievali leggere e riflettere su quanto si è letto.

Per noi, quando non è una frettolosa ricerca di stimoli o di informazioni che subito svaniranno, la lettura è sostanzialmente il tentativo di immagazzinare dei concetti. Per i monaci, mossi dal «desiderio di Dio», era operazione del tutto differente; per loro «leggere un testo era impararlo a memoria nel senso più forte di questo atto, cioè con tutto il proprio essere: con il corpo poiché la bocca lo pronuncia, con la memoria che lo fissa, con l’intelligenza che ne comprende il senso, con la volontà che desidera metterlo in pratica».

 

Dunque, un atto che coinvolge tutto l’io e non solo i neuroni del suo cervello. Questo metodo, scrive più avanti Leclercq, «porta a riconoscere grande importanza al testo e alle singole parole». Tanto che i teologi monastici chiamavano la loro riflessione ruminatio, proprio come fa un bovino che ha appena pasturato.

 

Riflettere «significa aderire strettamente alla frase che si ripete, pensarne tutte le parole per giungere alla pienezza del loro senso». È un’azione che «assorbe e impegna tutta la persona» e si trasforma «necessariamente in una preghiera».

 

Mi pare una modalità da riscoprire nella nostra superficiale frenesia di lettori sbadati. Del resto, dice ancora Leclercq, i monaci avevano un compito, quello di «mostrare, con la loro stessa esistenza, la direzione in cui bisogna guardare». Non solo nel Medioevo.