Moltissimi hanno visto il film I tre giorni del condor, non tutti ne ricordano la morale condensata in uno scambio di battute finali di non più di trenta secondi tra il protagonista Robert Redford, sopravissuto a un lungo inseguimento nel tentativo di ucciderlo come scomodo testimone, e un capo dei servizi segreti americani.
Il senso è il seguente: certo, afferma lo spione, ne abbiamo combinate di cotte e di crude, ma il fine è realizzare quello che ci chiede la gente comune, poter andare in macchina ogni giorno dove pare e piace o dove si deve, poter avere l’aria condizionata o il riscaldamento secondo abitudine, poter continuare, in sintesi, l’abituale stile di vita e dunque avere petrolio in quantità.
Questo particolare mi è tornato in memoria pensando a quanto è successo nell’ultimo periodo: venti di guerra a noi vicini e lontane catastrofi naturali con indotti rischi di contaminazioni nucleari. Le conseguenze economiche di entrambi gli accadimenti, ma anche gli analoghi presupposti, sono davanti a tutti: il minimo comun denominatore è l’energia di cui il mondo ha sempre più bisogno. Quella inquinante, e in lento ma ineliminabile esaurimento, del petrolio e quella “pulita” e a minor costo, ma che continua a sollevare timori tra la popolazione, dell’atomo.
La Francia, spalleggiata dall’Inghilterra, si fa paladina dei diritti umani anche in Africa scegliendo per questa spettacolare operazione l’unico Paese della riviera nord del Mediterraneo estrattore di petrolio e, per giunta, sostanzialmente fuori finora dalla propria portata. Quanto accade alla centrale giapponese di Fukushima riaccende in tutto il mondo il dibattito sul nucleare.
C’è anche chi, come Valentino Parlato su Il Manifesto, vede un forte collegamento tra le due cose: in previsione di un rallentamento, se non di un vero e proprio ripensamento, sull’energia atomica occorre riposizionarsi rapidamente sulle fonti tradizionali. Tutti preoccupati per sé, anche comprensibilmente, molti arroccati in difesa di uno stile di vita che a tutti piace e che sarebbe negativo dover perdere.
Questa è l’economia che sta dietro la politica e che, come ben sappiamo, ne dirige le operazioni. Solo che prima di essere l’economia del grande capitale, delle lobbies nucleari, di un rinnovato colonialismo, delle sette sorelle, e chi più ne ha più ne metta, è l’economia di gente come noi che fa fatica, anzi non ci pensa nemmeno, a rinunciare a qualcosa, e che invece si lamenta, appena ne ha uno straccio di appiglio, degli effetti “della più grave crisi economica dopo quella del ‘29”.
Senza scomodare Serge Latouche e la sua teoria sulla necessaria decrescita economica, utopica quanto rivoluzionaria, è evidente che la risposta ai nostri problemi, almeno a questo genere di problemi, è innanzitutto in noi stessi. Per molte generazioni che ci hanno preceduto economia era sinonimo di risparmio di quel poco che c’era a disposizione, oggi il modo migliore per difendere il molto di più che per fortuna è nelle nostre disponibilità è averne meno bisogno e saperlo condividere con la parte del mondo in via di sviluppo.
Solo belle parole? Bene, allora bombardiamo Gheddafi e teniamoci il nucleare.