La ferita e la felicità

Tra i testi di meditazione proposti per la Quaresima ha un posto privilegiato l’antico inno, attribuito a Jacopone da Todi, che prende il nome dalla prime parole: Stabat mater

Tra i testi di meditazione proposti per la Quaresima ha un posto privilegiato l’antico inno, attribuito a Jacopone da Todi, che prende il nome dalla prime parole: Stabat mater. Il modo migliore per meditarlo è ascoltare la stupenda versione musicale di Pergolesi.

Fin dalla prima strofa si dice che un gladius, spada corta e micidiale, ha trafitto – pertransivit – l’anima di Maria che guarda il Figlio morente sulla croce. È un richiamo preciso a quanto il vecchio Simeone aveva detto ai genitori di Gesù che avevano portato il bambino al tempio di Gerusalemme per la rituale offerta. Rivolgendosi alla madre, Simeone aveva profetizzato che una spada le avrebbe trapassato l’anima: animam pertransibit gladius.

Che cos’è quel gladius? Certamente lo strazio di una madre che assiste alla morte ingiusta e atroce del figlio. È lo strazio che fa di Maria la mater dolorosa, in cui ogni patimento di madre si riconosce. Se ascoltate come Pergolesi mette in musica il pertransivit, sentite proprio la lama che entra inesorabile nella carne, nella mente e nel cuore. Quel gladius è anche la partecipazione di Maria al martirio del Figlio e, infatti, come dicono molti autori medievali, Maria in quel momento diventa martire pur non subendo la morte fisica.

Ma c’è di più. Per i padri della Chiesa antica quel gladius era anche lo sgomento di fronte all’apparente fallimento della missione di Cristo, era addirittura il dubbio che la sua opera stesse subendo uno scacco definitivo. Troppo incomprensibile appariva la modalità della salvezza per accettarla senza esitazione. Ad esempio, san Basilio Magno scrive: «Simeone profetizza che Maria stando sotto la croce e vedendo ciò che accadeva e udendo ciò che si diceva, avrebbe conosciuto qualche turbamento anche nella su anima. E un qualche dubbio tocca anche te, Maria».

Questa interpretazione fu poi abbandonata, forse perché sembrava poco lodevole pensare che la madre di Gesù sia stata tormentata dal dubbio. E invece proprio questo aspetto ce la rende più vicina. Tutto intorno a noi mette in discussione la fede cristiana. Ci capita magari di fare una bella scoperta e subito dopo si insinua il sospetto che si sia trattato di un’illusione. Quando una prova o un dolore ci si parano davanti viene quasi immediato domandarsi se quello in cui crediamo sia così stabile e sicuro.

Che anche Maria sotto la croce sia stata turbata così è, in fondo, una consolazione: aiuta a non scandalizzarsi delle difficoltà, dei dubbi che insorgono. Perché mille difficoltà e dubbi non portano necessariamente alla conclusione negativa, non costituiscono un’obiezione insormontabile. Lei, infatti, li ha attraversati, li ha guardati senza assecondarli.

E così il gladius ha confermato quello che aveva detto Simeone: che la ferita sarebbe stata inferta perché fossero «svelati i pensieri del cuore», cioè messa in evidenza la posizione di fondo. Quella di Maria è espressa magnificamente dal verbo con cui inizia l’inno di Jacopone: stabat. Che non significa semplicemente «essere lì», come potrebbe fare un albero o un distratto soldato romano che fa il suo mestiere. Stabat significa: stare eretti, dritti, essere presenti a quello che succede, non scappare, non volgere gli occhi altrove.

In questo stare consapevole, la ferita del gladius si ricompone in una prospettiva che conduce alla felicità inimmaginabile, alla «paradisi gloria».

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