I giudici sono sottomessi solo alla legge, recita l’art. 101 Cost., enunciando ad un tempo le caratteristiche strutturali della funzione giurisdizionale (sottoposta alla legge) e la natura dell’ordinamento italiano, che non riconosce alle sentenze valore di fonte del diritto. In un ordinamento di  civil law, come è il nostro, dunque, il giudice  dovrebbe essere un semplice esecutore di decisioni prese dal Parlamento e non un creatore di norme. Come diceva Montesquieu, il potere giudiziario sarebbe un potere per così dire nullo.

Questo impianto logico sta vivendo da tempo una crisi di amplissima portata, di cui il conflitto tra giudici e politica non è che l’emergenza più clamorosa. Le origini della crisi, connotata da un forte incremento del potere dei giudici, sono risalenti. Basti pensare, ad esempio, ai cd. pretori d’assalto, che con la loro giurisprudenza hanno profondamente innovato il diritto del lavoro. E, ancora: è stata la Corte Costituzionale che, supplendo all’inerzia del legislatore, ha “regolato” con le sue sentenze il passaggio dal monopolio televisivo alla nuova (pur non interamente soddisfacente) forma del mercato delle trasmissioni.

Dirompente è stato poi il processo di integrazione europea: oggi le norme europee sono parte integrante del nostro ordinamento e le leggi che non vi si conformano sono disapplicate direttamente  dal giudice, senza che il legislatore le abroghi o la Corte le dichiari incostituzionali. 

E, infine, proprio su impulso della Corte costituzionale, i giudici sono incoraggiati ad applicare la legge solo dopo averne data una interpretazione costituzionalmente conforme: in tal modo di confini semantici della norma sono stati sovente messi sotto pressione per potervi inserire scelte interpretative anche innovative, che integrano e talora anche contrastano con la lettera della legge.

Ora, è certamente vero che l’attività del giudice non ha nulla di meccanico. Essa alberga in sé, inevitabilmente, dei margini di decisione; l’idea di un giudice asettico, mera bocca della legge, non è che una pura astrazione, una visione caricaturale, semplicistica, di un ruolo complesso; anche il giudice decide e non è la legge che può condizionare al cento per cento le sue scelte. Egli non fa la legge ma ne è l’interprete privilegiato.

 

Molto si discute oggi dei confini tra potere politico, inteso come potere esecutivo, e potere giudiziario. Ma chi riflette oggi sul confine tra il potere legislativo, cioè il potere politico per eccellenza, e il potere giudiziario? Questo confine è di determinazione assai più incerta ma non meno rilevante per il tema dei rapporti tra politica e giustizia. E’ la legge infatti che dovrebbe compiere le scelte politiche, determinare i valori e gli interessi di fondo, mentre oggi il legislatore pare spesso incapace – per la pluralità degli interessi e delle scelte etiche presenti nella società – di svolgere il suo ruolo.

 

Oggi sembrano essere i grandi casi giurisprudenziali, anche di tipo etico, che introducono nell’ordinamento  le scelte di valore più importanti e spingono il legislatore a intervenire, cosa che avviene sovente quando l’opinione pubblica  ha già determinato, sulla scorta di clamorose controversie, i suoi orientamenti. Il caso Englaro e il dibattito sulle DAT sono un esempio di questo fenomeno.

Si assiste, insomma, ad una torsione della funzione giurisdizionale, che da applicazione della legge si fa interprete della stessa secondo proprie logiche e propri valori e i giudici, da meri tecnici, diventano – secondo l’acuta definizione di Mary Ann Glendon – giudici romantici, il cui personale afflato verso determinati valori anche alternativi rispetto a quelli incorporati nella legge prevale sulla volontà, purtroppo raramente chiara, del legislatore.

 

Da sottoposto solo alla legge, anche per carenza di una precisa volontà legislativa, il giudice sottopone se stesso al proprio senso di giustizia, con ciò denunciando ad un tempo la crisi della funzione giurisdizionale e di quella legislativa, impotente a porre argini solidi alla deriva soggettivistica. Non può allora stupire  che, nutriti da un simile clima culturale, alcuni giudici finiscano poi per far propri compiti di giustizia politica che esulano interamente dalla loro competenza.  

 

Potrà la riforma della giustizia, che tutti attendiamo, porre rimedio a questo squilibrio, che non è solo contingente – come i conflitti sui processi a Berlusconi sembrano suggerire – ma  strutturale? Certamente essa potrà dare un sostanziale contributo ma, attenzione, le radici del problema sono assai più profonde  e, forse, non sradicabili, almeno fino a che tutti i poteri dello Stato non ne prendano coscienza e si muovano compatti per identificare e attuare rimedi efficaci e radicali.