Un’opera d’arte è tanto più riuscita e duratura quanto più il suo contenuto è universale. Una poesia, anche di secoli fa, ci coinvolge oggi, un quadro ci emoziona o una musica ci appassiona se ciò che trasmettono legge, interpreta ed esprime qualcosa di nostro, di così intimamente nostro che lo cogliamo come aspetto comune di quella cosa indefinibile e reale che chiamiamo “l’umano”.



Per raggiungere questo stato di universalità, l’arte non può che prendere le mosse da un particolare. Quel particolare assurge, però, a dimensione universale: la morte di Socrate diviene emblema del sacrificio per la verità, le trame di Macbeth scoperchiano l’abisso del male, il bambino ebreo che esce a mani alzare dal ghetto raffigura tutta l’ingiustizia del dolore innocente, il mirabile corpo del David michelangiolesco rimane per sempre figura della giovinezza eroica. Nella civiltà greca questo processo di universalizzazione è avvenuto attraverso il mito, eterna sorgente d’arte; ognuno di noi scopre in sé un Edipo o un’Antigone.



Ma questi personaggi particolari – reali o inventati – per raggiungere l’universalità si devono come svestire della propria particolarità. Quelli storici abbandonano la loro individualità: Socrate è solo un vero saggio, di quel bambino con le mani alzate non sappiamo neppure il nome, il leopardiano pastore errante dell’Asia non è più quel certo signore con nome e cognome, visto da un viaggiatore occidentale. Tutti, attraverso la mediazione dell’arte, sono diventati immagini universali.

Del resto l’universale in quanto tale, il divino, non è accessibile all’arte; anzi è così al di fuori dalle nostre possibilità rappresentative, anche le più geniali, che ebraismo e Islam proibiscono esplicitamente ogni tentativo di raffigurarlo. Di fronte a esso l’artista, come ogni uomo, si deve fermare e tacere. Anche in questo ambito, il cristianesimo ha completamente rovesciato il metodo.



Nei prossimi giorni ricorderemo avvenimenti storici molto particolari, personali e precisamente determinati. Riguardano un giovane rabbi ebreo, vissuto circa duemila anni fa, che ha radunato uno sparuto gruppo di discepoli prima di essere arrestato e condannato a morte da un oscuro funzionario romano di nome Ponzio Pilato. Una storia limitatissima nei suoi orizzonti spaziali e temporali; una storia che non sembrerebbe rivestire particolari elementi di esemplarità tanto da stimolare la creazione artistica che si muove verso l’universale.

E invece proprio quella storia è stata la scintilla che ha prodotto capolavori d’arte che nessun’altra vicenda personale o mito o invenzione di fantasia ha saputo eguagliare. Mettersi a farne un elenco anche molto sommario è impossibile. Ognuno di noi ha nella mente un’Ultima cena o una Flagellazione, un’Agonia nell’orto degli ulivi, una Salita al Calvario o una Crocifissione che l’ha lasciato a bocca aperta. Che sia espressa con parole, forme e colori o note musicali. E ciò che quest’arte celebra non è la sublimazione mitologica di quell’evento (Gesù emblema di ogni ingiusta sofferenza), è proprio quella storia lì, avvenuta in quel modo lì e in quel tempo lì.

E come può essere che un fatto così limitato, senza bisogno di sublimarsi in mito o in insegnamento morale, rimanga scintilla per l’espressione universale dell’arte? È che quella storia non è caduta nel passato. Cristo è risorto e, da allora, la sua vicenda è contemporanea a tutti i momenti della storia ed è quindi la più universale che si possa immaginare. Perciò la più artisticamente feconda.