Per uscire dall’impasse della guerra libica si discute ormai apertamente della possibilità di un impegno terrestre. E cosa sta succedendo nell’altra guerra dove i militari occidentali da anni combattono proprio sul terreno, cercando di conquistarlo e difenderlo palmo a palmo? Accade questo in diverse aree dell’Afghanistan e in particolare nell’est: trincee, cannonate e scontri ravvicinati. Nei quattro distretti di confine con il Pakistan è presente, dall’inizio della guerra, l’esercito americano con varie divisioni che si danno il cambio circa ogni anno e mezzo. Qui si registrano le perdite umane più alte. I soldati americani sono continuamente impegnati dai talebani nelle valli e sui pendii montagnosi.
Per difendere i centri abitati più grandi, e per spingere i guerriglieri verso il confine, gli americani avevano creato una rete di FOB (Forward Operating Base) e COP (Combat Operating Base) anche nelle valli più desolate. Celebre è la Korengal Valley, nel Kunar, considerato il posto più pericoloso del mondo. Le postazioni di artiglieria delle FOB vantano il record di maggior numero di munizioni sparate dall’inizio della guerra in Afghanistan. Fino al 2009 la strategia era del cosiddetto “clear, hold, build”, e cioè ripulire dagli insorti, essere presenti sul territorio con pattugliamenti e riunioni con i capi villaggio, e costruire.
Costruire, sì, perché l’unica strada dell’intero Kunar, fino al 2007, non era neanche lastricata. L’idea era che le strade avrebbero portato benessere e sicurezza. Una situazione durissima. Gli avamposti erano continuamente attaccati e i talebani, fortemente presenti, pagavano gli abitanti perché combattessero al loro fianco. In più nel Korengal si parla un dialetto particolare che persino gli afghani difficilmente riescono a capire. Alcuni buoni risultati si erano comunque ottenuti, eliminando i campi di addestramento dei mujaheddin dell’area, e creando una solida sinergia con i soldati afghani. C’erano state anche alcune azioni coordinate con la polizia di frontiera pakistana.



Nel 2009 venne però cambiata la strategia, nella convinzione che la violenza dell’area fosse dovuta alla presenza, mal sopportata dai locali, degli americani, e che, smantellate le FOB per concentrarsi sulle aree maggiormente popolate, le valli sarebbero tornate in pace. In realtà i dati forniti dalla situazione erano contrastanti e in ogni guerra l’imponderabile gioca un ruolo importante. Dunque si provano strategie diverse, le successive sostituiscono le precedenti in cerca di nuovi risultati mentre si cancellano quelli già acquisiti. E così la propaganda talebana ha avuto buon gioco nel presentare lo smantellamento delle basi come una vittoria e, per paradossale che possa sembrare, gli stessi talebani si sono avvantaggiati delle basi (e del loro contenuto, a volte carburante e munizioni) abbandonate e non distrutte dagli americani.
Nel 2010 la nuova strategia americana ha raggiunto anche la valle del Korengal, che era costata tantissimo alle forze americane. Le tre FOB rimaste all’imbocco della valle erano così bersagliate dai talebani che il capitano della base Michigan diceva che gli uomini si sentivano più al sicuro fuori che dentro. Da qualche tempo la nuova strategia è stata messa in discussione e in due distretti della regione di confine la pressione militare sul territorio è stata anzi rafforzata.
La storia dei militari americani nella valle del Korengal prima conquistata e poi abbandonata, sempre a caro prezzo, è stata raccontata in un magistrale documentario di Tim Hetherington, il reporter inglese morto due giorni fa nella città libica di Misurata insieme all’americano Chris Hondros (premio Pulitzer). In un’ora e mezzo Restrepo (il reportage, trasmesso da National Geographic e diventato celebre in tutto il mondo, prende il nome da un soldato americano morto nella battaglia del Korengal e molto amato dai suoi commilitoni), offre la realtà allucinata e terrificante della guerra dell’Afghanistan con una brutalità e una profondità che solo film come Apocalypse Now e Full Metal Jacket hanno saputo dispiegare. Ma qui si è trattato di morti veri, di soldati veri, di guerra vera. Proprio come sta diventando ogni giorno di più quella in Libia. La morte dei due grandi giornalisti unisce simbolicamente e minacciosamente i due conflitti, quello “giusto” e quello che ancora non ci si riesce a spiegare.

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