Cormac McCarthy, nel romanzo Non è un paese per vecchi, narra con uno stile veloce e asciutto la storia di tre uomini che nel Texas di oggi, lungo il confine con il Messico, si inseguono spietatamente, spinti da una necessità ineluttabile, in un mondo dove solo gli spietati sopravvivono, nel senso che possono scegliere «in quale ordine abbandonare la propria vita». Uno di loro, lo sceriffo, contempla, alla fine della storia, un abbeveratoio scavato nella pietra. A chi era venuta un’idea del genere, in quel paese senza pace? Certo, quell’uomo “si era messo lì con una mazza e uno scalpello”, e l’abbeveratoio “sarebbe potuto durare diecimila anni”. Perché lo aveva fatto, in che cosa credeva? “Devo dire che l’unica cosa che mi viene da pensare è che quello aveva una sorta di promessa dentro al cuore. E io non ho certo l’intenzione di mettermi a scavare un abbeveratoio di pietra. Ma mi piacerebbe essere capace di fare quel tipo di promessa. È la cosa che mi piacerebbe più di tutte”.
È possibile fare una promessa all’uomo, cioè ai nostri amici e ai nostri figli, che non abbia come fondamento la resurrezione di Cristo?
Un “teologo laico” (secondo la definizione dello stesso interessato) scriveva su un noto quotidiano: “Se domani si ritrovasse un’urna con le ossa di Gesù di Nazareth, per i miei valori e per la mia visione del mondo non cambierebbe molto […]. Non è perché Gesù è risorto che è il mio maestro. Lo è per le cose che ha detto e per lo stile di vita con cui ha vissuto, per la sua umanità, il suo senso di giustizia E questo dimostra che non è il cristianesimo a salvare gli uomini, come non li salva nessun altra religione. Gli uomini si salvano […] perché sono giusti.(V. Mancuso, Il Foglio, 23 marzo 2008).
Il cristianesimo diviene così un traguardo etico, a cui tendere con le proprie forze. Nobilissimo traguardo. Ci sono ragionevoli speranze di raggiungerlo? Francamente, pare di no. Agli stessi successi, anche morali, manca sempre qualcosa. Ammoniva un testimone non meno “laico”, Italo Calvino, ne Le città invisibili: “Solo se conoscerai il residuo di infelicità che nessuna pietra preziosa arriverà a risarcire, potrai computare l’esatto numero di carati cui il diamante finale deve tendere, e non sballerai i calcoli del tuo progetto dall’inizio”. Con sollecitudine non meno realistica, la Chiesa, nella liturgia della Settimana Santa, parla di un’umanità “sfinita per la sua debolezza mortale”.
La sfida della Pasqua non è un ideale morale. Ma un fatto accaduto realmente: l’inizio di una vita umana diversa nella quale sono rintracciabili i tratti del divino. Di quel diamante finale desiderato in maniera struggente dal cuore. Nella Pasqua, la Chiesa mostra al mondo l’unica “pietra angolare” sulla quale è possibile costruire la nostra speranza.
“La fede cristiana – ha scritto recentemente Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret – sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti. Se si toglie questo, si può, certo, raccogliere dalla tradizione cristiana ancora una serie di idee degne di nota su Dio e sull’uomo, sull’essere dell’uomo e sul suo dover essere – una sorta di concezione religiosa del mondo -, ma la fede cristiana è morta”.
La resurrezione di Cristo, dunque, è l’unica speranza. Ma può essere veramente accaduta? Come facciamo noi uomini di oggi a crederci senza abdicare alle esigenze della nostra ragione? Le prove sono da cercarsi nella vita dei credenti. Sono loro a dare anche oggi testimonianza di Gesù risorto; ponendo nel mondo dei gesti che sarebbero impossibili e assurdi se Lui non fosse vivo e presente.
In questo senso la resurrezione di Gesù avviene ora.