Ieri, 25 aprile, c’è stato un inconsueto ingorgo di festività. Da un lato si prolungava l’esultanza di Domenica con la Pasquetta, tradizionalmente utilizzata per una gita con familiari e amici. Dall’altro c’era la Festa della liberazione dell’Italia dal regime fascista e dal dominio nazista.
Abbiamo appena celebrato i 150 anni di esistenza dello Stato unitario e nella storia della nostra nazione quel 25 aprile 1945 è stato certamente una tappa cruciale. Sono sempre di meno quelli che possono ricordare di aver vissuto da protagonisti quei giorni. Per noi altri si deve ricorrere ai ricordi di qualche conoscente. E quanto più quella data si allontana, tanto meno risulta chiaro il contenuto della festa.
Da ragazzo, alla fine degli anni Sessanta, avevo la percezione che qualcosa di grosso fosse successo alla generazione che mi aveva preceduto: erano passati attraverso la guerra, si erano liberati di un giogo opprimente e ora noi potevamo godere dei benefici civili ed economici da loro conquistati. Ma non se ne parlava molto; c’era da guardare avanti.
Nel successivo decennio, quello delle scuole superiori e dell’università, il 25 aprile appariva alonato di retorica. C’erano le celebrazioni ufficiali della liberazione col seguito di partigiani, Oh bella ciao, eccetera. C’era però anche tutto un fermento in vista di un’altra liberazione che doveva ancora venire: quella dall’ingiustizia, dalla schiavitù capitalista, dalla società borghese. Ma la strategia per questa futura liberazione era accaparrata da forze politiche di sinistra o di estrema sinistra e aveva un insopportabile sapore di ideologia. In seguito, di fatto, il 25 aprile è stato poco più che un semplice giorno di vacanza, nient’altro.
Il punto è, mi sembra, che per celebrare una liberazione occorre aver esistenzialmente chiaro da che cosa ci si libera. Facciamo un esempio banale: se ho un gran mal di testa e prendo un analgesico e il dolore mi passa, l’esperienza di liberazione è chiara. Se mi parlano dell’emicrania e non l’ho mai avuta, sarà difficile che capisca cosa significhi esserne liberato. Siamo nella società che chiamano del benessere, della libertà senza limiti, delle possibilità apparentemente infinite; di che liberazione avrò mai bisogno?
A un livello più radicale, è quello che capitò a Gesù che discorreva coi sapienti del tempio di Gerusalemme. Quando disse loro: «La verità vi farà liberi», questi risposero che non ne avevano nessuna necessità, che anzi si sentivano offesi dal fatto che qualcuno li considerasse schiavi da liberare. È vero, siamo nella società del benessere e della libertà, eppure una certa esigenza di liberazione, spesso inconsapevole, ci brucia dentro. Liberazione non da una schiavitù esteriore come potrebbe essere un regime oppressivo (sebbene in modo più soft e subdolo molti legami esterni ci avvincano), non dalla povertà materiale che abbrutisce (sebbene per molti sia un pericolo e, soprattutto, ben altra povertà riempia le nostre esistenze).
Ci occorre la liberazione dal non senso, dalla vacuità, dall’assenza di prospettive, dall’aridità dei rapporti. In sintesi: dal male. Ed è forse proprio perché non ammettiamo questo bisogno che anche la liberazione che abbiamo celebrato a Pasqua può essere passata nell’indifferenza, come se fosse soltanto un qualunque giorno di vacanza.