Come ha osservato Giorgio Vittadini nel suo articolo pubblicato su queste pagine mercoledì, e come vuole la tradizione degli ultimi dieci anni di campagne elettorali, anche il voto delle amministrative che avrà luogo a metà maggio si avvia, tristemente, a essere l’ennesimo sondaggio pro o contro Berlusconi, pro o contro gli immigrati. Dietro la scia dei consueti fatti di cronaca giudiziaria o di scandali costruiti ad hoc, stiamo assistendo ancora una volta a una campagna elettorale senza contenuto.

I cittadini non si allontanano dalla politica per caso. Chiedono che quella classe politica desiderosa di farsi carico dei problemi reali che permeano in maniera strutturale il nostro sistema-Paese esca allo scoperto. I cittadini di Milano, di Napoli, di Torino, ma anche quelli di tutti i comuni italiani più piccoli che devono eleggere una nuova amministrazione, vogliono poter scegliere tra diverse proposte, tra diversi modelli di convivenza civile messi sul piatto per la propria città.

Cosa vuol dire fare parte di una città? Quale visione della collettività occorre mantenere al fine di far risvegliare in maniera permanente le potenzialità che le nostre città hanno dimostrato negli anni? I concetti di “persona al centro”, di sussidiarietà e di sviluppo che parta dalla creatività sociale del singolo restano la cartina di tornasole affinché il governo di una città possa essere il motore per un benessere che non sia soltanto economico di una comunità.

Il fatto che la famiglia costituisca il fulcro economico e il vero tesoro della società non può passare in secondo piano. Una buona amministrazione si distingue da una cattiva amministrazione se valorizza al meglio le proprie risorse. Allora seguire l’esempio fornito dalla città di Parma, con il cosiddetto “quoziente Parma”, promosso dalla giunta di centrodestra, è un investimento dal successo assicurato. Investire sulla famiglia e rimodellare il sistema fiscale attorno a essa si è dimostrato il migliore antidoto contro la povertà e contro la disuguaglianza.

Un altro aspetto che non si può tralasciare, anche alla luce degli sconvolgimenti internazionali degli ultimi mesi, è quello dell’integrazione. Che tipo di integrazione vogliamo? Quale approccio deve avere una comunità nei confronti di una società che diventa sempre più multietnica? Le nostre città, soprattutto le più grandi, hanno tutto per affrontare questa sfida in modo vincente.

L’Italia dispone, ad esempio, di alcune tra le più antiche e importanti città universitarie: queste possono essere un ponte di interscambio culturale tra il Mediterraneo e l’Europa, sviluppando quella vocazione internazionale, propria dei nostri capoluoghi, che risponda alla duplice esigenza di integrazione e di giovani lavoratori sempre più qualificati.

Il presupposto è evidentemente quello della massima apertura nei confronti di chi mette le proprie competenze e la propria ricchezza culturale a disposizione della città in cui approda. Occorre procedere favorendo dignità e rispetto reciproco. Non dobbiamo dimostrare indifferenza verso le convinzioni religiose di ciascuno, ma farci vedere esigenti nella salvaguardia delle nostre tradizioni, senza per questo scivolare in un’antistorica difesa di piccole patrie.

Solo da qui possiamo partire se intendiamo dare ai nostri cittadini risposte che oltrepassino la semplice difesa dei nostri interessi di bottega. Cittadini e istituzioni devono stringere un patto che includa davvero ogni singola realtà che vi abita. Così sarà più facile anche garantire la sicurezza che spesso sentiamo minacciata.

Se agiremo nella consapevolezza che ciascuno abbia qualcosa di originale da offrire alla comunità, anche le tradizioni, nate e sviluppatesi nei luoghi in cui viviamo, saranno inaspettatamente rilanciate.