Tutti si chiedono “come andrà a finire” e il tentativo di decifrare il futuro delle rivolte arabe rende sfocato lo sguardo su quel che accade “sul campo”. Di più: la preoccupazione del “dopo” occulta la realtà dell’“adesso”.
La Siria, ad esempio: è scoppiata una protesta clamorosa, imperiosa, violenta. Non accadeva dagli anni ‘80, quando le città di Hama e Homs vennero praticamente rase al suolo dai soldati di Hafez Assad, padre dell’attuale leader. Quasi una guerra lampo per mettere a tacere l’insurrezione guidata dalle organizzazioni islamiche sunnite (Fratelli Musulmani e così via), con un numero incalcolato di morti e una pesantissima cortina di segretezza.
Da allora in quel Paese ogni rumore è stato attutito, fino a renderlo quasi impercettibile. Ma è evidente che le piazze in rivolta di queste settimane, pur non avendo (ancora?) espresso una simile forza, hanno suonato le campane per la super elite (alauita) al potere a Damasco. Il regime ha risposto come da copione: dopo qualche giorno di stordimento e dopo aver fatto circolare l’idea di un inizio di riforme, ha allontanato ogni reale concessione additando i soliti “complotti stranieri”, forse il passatempo più diffuso nel mondo arabo.
Il potere, che ha un assetto più duro e più ostico, non si è squagliato come in Tunisia e in Egitto, ma come Tunisia ed Egitto anche la Siria è entrata in un tempo sospeso: non è più come prima, ma non si è arrivati al dopo. L’assenza di una nuova fase incentiva in Occidente e in Oriente l’uso del telescopio al posto della lente di ingrandimento. Si è capito, e più che altro si è sperimentato, che l’accoppiata dittatura semilaica-stabilità politica non funziona più. Cosa possa funzionare al suo posto nel mondo arabo, mentre ancora tengono le monarchie tradizionali di Marocco, Giordania e Penisola araba, nessuno è in grado di dirlo.
Le profezie che circolano si riassumono sostanzialmente in tre grandi filoni: conquista del potere da parte delle organizzazioni islamiste come i Fratelli Musulmani con mezzi tendenzialmente “democratici” (come in Algeria venti anni fa, fu poi l’esercito a vanificare i risultati elettorali) e con un certo grado di accettazione delle minoranze e del pluralismo; instaurazione di una dittatura religiosa islamica senza se e senza ma; faticoso sviluppo di istituzioni “neutrali” e di sistemi politici aperti. Nei primi due casi gli esempi di riferimento sono Turchia e Iran, nel terzo non esiste un modello suggeribile. Naturalmente su tutto ciò avvampano le discussioni.
Ma cosa vediamo se abbandoniamo il telescopio e prendiamo la lente di ingrandimento? La confusione, certo. La lotta. La sicurezza che il passato, quel passato, è consegnato ai libri di storia. La speranza. La paura. La responsabilità di costruire. Nuovi nemici e nuovi amici. Leadership sorprendenti. Delusioni profonde. Compromessi. Alleanze.
Più o meno è quel che è accaduto nelle settimane precedenti e successive al referendum egiziano, del quale abbiamo avuto resoconti fortemente influenzati dalla domanda numero uno, quella su come finirà: ad esempio, è stata sottolineata la permanenza dell’articolo 2 della Costituzione, relativa al Corano come fonte della legislazione, come prova lampante del potere degli islamisti, ignorando il fatto che il referendum riguardava tutt’altre questioni e che la riforma della Costituzione sarà la quarta tappa del cammino del nuovo Egitto (referendum, elezioni parlamentari a settembre, elezioni presidenziali a dicembre, assemblea costituente nel 2012).
Certo, non c’è alcuna garanzia circa il futuro dell’Egitto, la cui situazione è la più decisiva di tutte: se finirà col diventare una Turchia (possibile) o un Iran (improbabile) o un Paese nuovo e libero capace di indicare la strada a tutti gli altri (chissà). Nel frattempo c’è l’attualità, la realtà, la vita di oggi. Sarebbe un brutto guaio, specie per le minoranze cristiane, se la preoccupazione per la sopravvivenza impedisse di vivere il rischio dell’ora presente.