L’esecuzione di Osama Bin Laden da parte dei militari americani ha continuato ad essere l’argomento principale nelle notizie e commenti dell’ultima settimana. Le conseguenze della coraggiosa scommessa politica e militare del presidente Barack Obama sono state discusse sotto ogni possibile angolatura, compresi gli aspetti etici, in particolare la questione della legalità e della giustizia.
Uno degli articoli più interessanti in questo dibattito (e rappresentativo dei suoi toni e contenuti) è quello di Thomas Nachbar, intitolato “È giustizia?”, apparso il 5 maggio sul periodico elettronico Slate .
“Quando il presidente Obama ha annunciato la morte di Osama Bin Laden” commenta Nachbar, “ha evocato ripetutamente il concetto di giustizia. Come lo stesso presidente ha succintamente detto ‘Giustizia è fatta’”. Tuttavia, Nachbar osserva che “usare questo termine per descrivere quanto accaduto lo scorso fine settimana ad Abbottabad in Pakistan, è un invito a una confusione che come nazione non possiamo consentirci”.
Descrivere un’azione come “giustizia” non significa solo affermare che quell’azione è legittima, ma affermare che è legittimata da particolari modalità. Così, quando diciamo che il nostro sistema legale dispensa “giustizia”, intendiamo dire che ciò avviene secondo una serie fissata di regole e procedure, che hanno il loro fondamento nella volontà sovrana del popolo. Quando dei privati agiscono di propria iniziativa per punire i criminali, lo definiamo “vigilantismo”.
“Nella sostanza, quindi, ciò che i militari Usa hanno compiuto su Osama Bin Laden è violenza… La violenza può essere una forma di giustizia, e la giustizia richiede ogni tanto atti di violenza. Ma, malgrado occasionali relazioni anche strette, giustizia e violenza non devono mai essere confuse, anche quando la violenza sia usata per servire la più giusta delle cause. Perché la distinzione è importante? Perché noi possiamo agire secondo i nostri principi solo se abbiamo una chiara idea di essi, e possiamo averne una chiara idea solo se ne parliamo chiaramente. E i nostri principi, quelli per cui vale la pena combattere e morire, sono ciò che ci separa da quelli come Osama Bin Laden, non la capacità di uccidere gente a migliaia di chilometri di distanza”.
Nachbar riconosce che “dare un senso a questo mondo complesso e disordinato attraverso le lenti dei nostri principi non è un compito facile, e i nemici non si presentano secondo categorie definite che permettano risposte logiche e predeterminate. Dobbiamo affrontare circostanze e avversari così come vengono”.
Anche nel caso che lo scopo di un’azione sia eticamente giusto, è importante che i mezzi scelti per raggiungerlo siano in accordo con i nostri principi. Altrimenti, anche se lo scopo è così importante come l’uccisione o la cattura di un terrorista, è comunque un errore, poiché è questo che distingue il presidente degli Stati Uniti dal capo di una banda pur particolarmente grande e ben organizzata.
Avverte ancora Nachbar: “Non riconoscere le differenze che separano la giustizia dalla violenza è il tipo di errore che condusse alle politiche di detenzione e interrogatorio, confuse e a tratti rovinose, che segnarono l’inizio della partecipazione attiva dell’America in questo conflitto nei primi anni 2000… Anche oggi, anni dopo che la nostra nazione ha messo fuori legge le ‘tecniche rafforzate di interrogatorio’…vi è ancora chi le difende perché potrebbero avere aiutato a trovare e uccidere Osama Bin Laden”.
Il problema è, aggiunge Nachbar, in un concetto ancor più nebuloso di quello di giustizia: “sicurezza”. A chi lavora nelle organizzazioni della difesa o dell’intelligence viene spesso chiesto di mettersi al servizio della sicurezza, e spesso la sicurezza sembra essere in conflitto con la ricerca della giustizia. Abbiamo quindi bisogno di qualcosa d’altro per stabilire se particolari misure di sicurezza rispettano i nostri principi.
Vi sono avvocati (tra questi Geoffrey Robertson, il difensore di Julian Assange) che sostengono che, per rendere legale l’uccisione di Bin Laden, i Seals avrebbero dovuto agire per difendere se stessi, ma pretendere che unità militari possano usare la forza solo per legittima difesa, osserva Nachbar, non è solo una totale incomprensione delle leggi di guerra, bensì significherebbe esporre i nostri militari a rischi intollerabili e azzoppare la capacità della nostra nazione di difendersi.
“Né la violenza, né la sicurezza, per cui spesso viene usata, devono essere confuse con principi fondamentali come la giustizia” conclude l’autore. “Anche se Osama Bin Laden è stato sconfitto dalla violenza, solo principi come la giustizia possono alla fine sconfiggere la ideologia che rappresentava”.
L’articolo di Nachbar mi ha ricordato la discussione tra il filosofo tedesco Jurgen Habermas e il Cardinale Joseph Ratzinger, proprio qualche mese prima che venisse eletto Papa. In essa, Ratzinger cita la posizione secondo la quale i principi per giudicare la moralità di una società democratica traggono la loro autorità “dal sovrano volere del popolo”, per usare i termini di Nachbar.
Il problema, osserva il Cardinale Ratzinger, è che “l’accordo totale tra gli uomini è molto difficile da raggiungere, il processo di formazione di una volontà democratica dipende necessariamente da un atto di delega alle decisioni di una maggioranza… Ma anche le maggioranze possono essere cieche o ingiuste, come ci insegna la storia. Quando una maggioranza… opprime una minoranza religiosa o etnica mediante leggi ingiuste, possiamo ancora parlare in questo caso di giustizia?”
La volontà sovrana del popolo lascia aperta la questione del fondamento etico della legge. La domanda è “se c’è qualcosa… che è antecedente a ogni decisione della maggioranza e che deve essere rispettato da tutte le sue decisioni”. In altre parole, vi sono “valori che sussistono in sé che scaturiscono dall’essenza di ciò che è un uomo e sono pertanto inviolabili: nessun altro uomo può infrangerli”. Se è così, l’evidenza di questi valori non può che essere riconosciuta in ogni cultura.
Più volte il Cardinale offre esempi di come sia difficile oggi trovare “una efficace convinzione etica con sufficienti motivazione e forza per rispondere alle sfide” del tempo presente, inclusa quella di come combattere nel modo migliore il terrorismo. Ratzinger conclude francamente: “la formula razionale, etica o religiosa per comprendere tutto il mondo e unire tutte le persone non esiste; o, almeno, non è attualmente conseguibile”.
Nello stesso giorno in cui veniva ucciso Bin Laden, abbiamo potuto vedere un altro tipo di umanità nella quale il riconoscere il bene e la diversità delle culture non erano in conflitto. Papa Ratzinger continuerà a spingere tutti a proseguire il dialogo che ci può aiutare a trovare un fondamento etico comune per promuovere la causa della giustizia. In quel giorno, però, ci ha dato un uomo, un testimone della salvezza dell’umano in tutti noi, il Beato Giovanni Paolo II.