Indro Montanelli notava spesso e volentieri che Benito Mussolini, Bettino Craxi e Silvio Berlusconi – i tre premier forse più capaci di marcare di impronte individuali la storia dell’Italia moderna – erano partiti tutti da Milano. E a Milano, certamente, concluse tragicamente la sua parabola il duce. A Milano, in fondo, cedette le armi il leader del Psi: quando nel, ’93, la Lega strappò il Comune alla storica guida socialista. E ieri, probabilmente, anche il Cavaliere ha conosciuto una sconfitta-spartiacque nel capoluogo che lui stesso ha reinventato attraverso la sua avventura di successo: prima come imprenditore, poi come politico.
Il rapporto tra capitalismo e impegno pubblico, tra economia e politica è forse il primo dei temi che per ora è solo possibile appuntare: soprattutto se – lo sottolineiamo – non stiamo ragionando di un’inattesa sconfitta del centro-destra in una pur importante elezione amministrativa, ma della fine del ventennio di transizione berlusconiana dalla Prima repubblica. Letizia Moratti personifica forse più dello stesso Cavaliere la moderna sintesi meneghina di intrapresa e gestione della cosa pubblica. La crisi finanziaria e la recessione hanno distrutto imprese, risparmi, posti di lavoro: e anche il mito (berlusconiano) che il successo nel business sia di per sé autorevole pretesa a governare un paese (o una grande metropoli) coniugando mercato, società e legalità, meriti e bisogni, stato e sussidiarietà.
Questa impostazione sta in piedi se la politica è davvero un traino della vita economica, se favorisce lo sviluppo, il lavoro, le riforme e l’imprenditoria. Tutto questo, però, negli ultimi mesi a livello nazionale è sparito. Hanno dominato invece le urla, gli scandali, le divisioni, le lotte di potere e i conflitti istituzionali (anche per la perenne minaccia della magistratura).
Si sarebbe potuto far campagna elettorale separando Milano dall’Italia, parlare dello sviluppo di questa città cruciale, del Pgt, delle prospettive dell’Expo, delle ambizioni di Milano a rimanere uno dei nodi della globalizzazione. Ma il premier in prima istanza ha preferito radicalizzare lo scontro, non parlare di contenuti, dimenticare la città, oscurare il lavoro della giunta e fare un referendum di tipo ideologico. Nell’ultima parte della campagna elettorale, poi, ha travolto su questo piano persino la Moratti, fino ad allora elegante nei toni e nei contenuti.
Spostando lo scontro sul piano dei radicalismi ha così perso molto dell’elettorato moderato, che votava il centrodestra ispirato dal nesso tra politica e realtà economico-sociale, in chiave di sviluppo, solidarietà e sussidiarietà. A questo si aggiunge che anche nel centrodestra più politico e responsabile si avverte una spaccatura verticale: da una parte la Lega Nord e il mondo tremontiano, dall’altra il Pdl a cui appartiene anche la Moratti. L’esito non poteva che essere un impegno fiacco da parte degli uomini di Bossi.
A sinistra, d’altra parte, non ha vinto una nuova proposta, tantomeno il leader del Pd Bersani. A Napoli ha vinto un magistrato screditato dalla stessa magistratura che ha polverizzato il candidato del Pd; a Milano ha vinto il candidato di Vendola, un galantuomo come Pisapia, portatore però di un progetto confuso perché appoggiato dai poteri forti finanziari ed editoriali, dai centri sociali, nonché dai radical chic disimpegnati e ricchi alla Milly Moratti.
Quale prospettiva quindi per Milano? L’esito del ballottaggio pende dalla parte di Pisapia, con il possibile rischio dell’ennesima coalizione arcobaleno di sinistra con forti connotati statalisti.
Solo un miracolo e una rinnovata coesione di ideali e intenti programmatici, a questo punto, può permettere al centrodestra di sostenere efficacemente la Moratti per la sua rielezione a sindaco di Milano.