Anche se in questi giorni i riflettori della cronaca sono puntati sull’esito delle recenti elezioni amministrative, e non potrebbe essere diverso, è comunque meglio non dimenticarsi che nel frattempo un gruppo di Paesi della Nato, di cui l’Italia fa parte, continua a bombardare in Libia; e che la maggior parte della riva sud del Mediterraneo compreso fra la Tunisia a est e la Siria a ovest, o è in guerra, o è in grave tensione, o sta vivendo comunque una fase di transizione delicata e instabile.
In primo luogo, ma non solo per motivi di vicinato, tale situazione interessa in campo europeo innanzitutto il nostro Paese, l’unico fra i maggiori membri dell’Ue e l’unico fra gli Stati del G8 a essere bagnato soltanto dal Mediterraneo. Come già abbiamo accennato, ma come vale la pena di continuare a ribadire, dalla nostra collocazione geografica derivano delle precise conseguenze sul piano geo-politico e geo-economico che abbiamo il dovere di riscoprire. Continua ad essere ragionevole che aderiamo alla Nato, ovvero alla North Atlantic Treaty Organization (Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord), anche se l’Italia essenzialmente non è un paese atlantico per il semplice motivo che per l’appunto non sta sull’Atlantico bensì sul Mediterraneo. Siccome ciò è lapalissiano, c’è qualcosa di schizofrenico nel fatto che tanta evidenza non sia né comunemente avvertita né sin qui adeguatamente considerata dalla nostra politica estera. I motivi storici di tale colossale strabismo sono noti: risalgono alla seconda guerra mondiale, quando vennero sì sconfitte due dittature esecrande ma anche, insieme ad esse, inevitabilmente due Paesi con dei loro legittimi interessi nazionali. Nel caso che ci riguarda, il nostro legittimo interesse di potenza mediterranea.
Adesso però, a oltre sessantacinque anni dal 1945, diciamo ancora una volta che sarebbe ora di cambiar strada. Non mettersi a rincorrere in modo automatico qualsiasi iniziativa delle potenze nordatlantiche, come invece è accaduto nel caso della crisi libica, sarebbe già qualcosa. Non torno però qui sull’argomento tanto più che quanto scrissi su ilsussidiario.net all’inizio della crisi, e in particolare lo scorso 6 marzo, mi sembra ancora attuale. Al di là dei casi singoli, occorre piuttosto delineare in modo organico le linee di una possibile politica mediterranea del nostro Paese da portare poi avanti sistematicamente ed in cui collocare la gestione delle possibili future crisi. Se invece un tale quadro d’insieme manca, allora ci si condanna a reagire in modo estemporaneo agli eventi, e per di più correndo su binari posti sul terreno da altri secondo un disegno che di solito ci gioca contro.
Nella definizione di tale politica si deve a mio avviso prendere le mosse da un punto fondamentale: mentre a noi sud europei, a noi mediterranei/danubiani, interessa che il Vicino e Medio oriente, in una parola il Levante, sia non solo in tregua ma in pace e in sviluppo, ai nostri alleati nordatlantici nella Nato e ai nostri partner nordatlantici nell’Unione europea non interessa molto che sia in pace e in sviluppo; gli basta che sia in tregua. A nordatlantici perciò va bene che nel Levante le crisi diventino croniche trasformandosi in interminabili conflitti a bassa potenza, in situazioni di attrito ricorrente, come già è accaduto in Israele e Palestina, e in Libano; e come si sta facendo il possibile perché accada anche in Libia.
Il nostro Paese ha invece tutto l’interesse a che questi importanti grandi ponti potenziali dell’interscambio euro-asiatico e rispettivamente euro-africano vengano riaperti e via via sempre più potenziati e infrastrutturati nella prospettiva di un equilibrato sviluppo condiviso (in assenza del quale, osservo per inciso, la disastrosa immigrazione non autorizzata verso le nostre coste diventerebbe a lungo termine comunque irrefrenabile). Questo dovrebbe essere un elemento-chiave della nostra politica estera.
In tale prospettiva una forte mediazione volta a risolvere in modo concordato la crisi libica potrebbe essere, anzi deve essere il punto di svolta. In questo mi sembra di vedere che il nostro Paese potrebbe trovare un grande alleato nella Santa Sede, la quale è ormai apertamente schierata per una soluzione non militare della crisi e che – grazie alla testimonianza e all’opera del vicario apostolico a Tripoli mons. Innocenzo Martinelli, nonché dei cattolici (soprattutto filippini e arabi) rimasti coraggiosamente sul posto a lavorare negli ospedali libici – nella difficile partita per una pace equa in Libia ha delle carte da giocare di cui nessun altro dispone.