In un magnifico libro (Verso un mondo nuovo, ed. Liberilibri) Mary Ann Glendon ha raccontato la nascita della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, mirabile capolavoro di saggezza, solidità e condivisione. Il testo si deve al lavoro di un manipolo di uomini e donne tenuto insieme, attraverso tensioni e crisi, da un geniale intellettuale cristiano libanese, e forse solo un uomo forgiato dalla storia del Paese più fragile e meraviglioso dell’epoca moderna poteva riuscire nell’impresa. Era quello il tempo febbrile dei grandi sogni, della volontà di riscatto e di comunione dopo la catastrofe della Guerra che era dilagata per i quattro angoli della terra.
Le Nazioni Unite nascevano dal bisogno di costruire una casa comune su nuove fondamenta. Multilateralismo, egualitarismo, autodeterminazione, solidarietà. Da cui poi il principio di far prevalere il negoziato sullo scontro, l’inizio della fine del colonialismo, il proliferare di nuovi organismi e agenzie internazionali che avrebbero dovuto mediare, risolvere, sviluppare, pacificare, aiutare, costruire, includere. Dopo più di sessanta anni di quel momento storico rimangono i testi e le fotografie. Ma la grande costruzione non ha resistito al tempo e alla forza endogena del potere. Centinaia di organizzazioni, decine di migliaia di funzionari, enormi palazzi sparsi in ogni dove, montagne di soldi, tonnellate di documenti, innumerevoli eventi e riunioni e tavoli e congressi e assemblee, senza che si riesca a dare una risposta soddisfacente alla domanda: cosa stiamo facendo?
Nelle sedi della comunità internazionale si convive con un paradosso: non si sa il perché di tanto darsi da fare ma non se ne può fare a meno. È un mondo logorato dalla pressione degli interessi obliqui fatti prevalere a furia di “compensazioni” (cioè: il consenso si compra), un mondo annoiato dai riti autocelebrativi, un mondo che spera in un cambiamento ma si sente privo delle energie indispensabili per concretizzare qualcosa di nuovo. Ci vuole una riforma, si sente dire dappertutto, ma chi ha la forza per smuovere il corpaccione inerte del Palazzo di Vetro, il simbolo stesso di ciò che amiamo – un luogo di tutti e per tutti – e di ciò che non sopportiamo più – un luogo di menzogna e di artificio? Se ne sta lì a New York, a giganteggiare sulla banchina dell’East River, circondato da bandiere e transenne, scombussolato dai lavori di restauro che andranno avanti per anni. Costosi, ma facili. Gli altri restauri, altrettanto urgenti, sarebbero ben più economici, ma molto difficili.
Infatti rendersi conto del bisogno, e tutti sanno che all’Onu c’è “il” bisogno, non assicura che ci sia qualcuno che cerchi di risolverlo. Finché si rimane nell’analisi nulla si muove. La linfa nuova viene solo dai fatti. Fatti che accadono per la forza di un soggetto che si pone in virtù di se stesso (e non perché sia bravo a risolvere i problemi, o abbia una strategia efficace). È la storia di sessanta anni fa di quel gruppetto di persone, è la storia dei cantieri di Danzica, di piazza Tahrir al Cairo. E del Meeting di Rimini che oggi si presenta al Palazzo dell’Onu. Un piccolo fatto a fronte dell’immenso edificio e delle sue magagne – lo sappiamo, non ci manca il senso delle proporzioni. Chissà.