Verrà dalla Spagna, insieme alla sconfitta di Zapatero nelle elezioni amministrative, la nuova sfida delle giovani generazioni? L’esempio degli “indignati” sarà imitato anche da noi?

Che esista una vera e propria questione giovanile pure in Italia è talmente scontato da essere ormai diventato quasi un banale luogo comune, una sorta di verità rivelata rilanciata acriticamente dai media e accettata senza verifiche. Ma le soluzioni non sono semplici come sembra di credere la sinistra e, soprattutto, non saranno mai la predisposizione di nuove norme o la soppressione di talune esistenti (come sembrò credere il Governo Prodi) a risolvere un problema di carattere strutturale e determinato da tanti fattori che chiamano in causa i processi formativi e gli strumenti che nel mercato dovrebbero garantire l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro.



In Italia, negli ultimi tre anni, a fronte di una flessione del totale dell’1,5%, gli occupati al di sotto dei 35 anni sono diminuiti del 13,6%, mentre quelli in età adulta e matura sono aumentati del 3,9%. Lo stesso trend si intravede dall’angolo di visuale del tasso di disoccupazione. I disoccupati in età compresa tra 15 e 24 anni sono passati, nel triennio, dal 20,3% al 27,8%, quelli tra i 25 e i 34 anni dall’8,3% all’11,9%.



Un altro aspetto merita di essere segnalato: il compimento dei 25 anni costituisce una sorta di discrimine. Al di sotto di quel limite (15-24 anni) studia il 60,4% dei giovani e lavora il 20,5%. Al di sopra (25-34 anni) il 65,4% lavora, mentre il 14,4% (500mila giovani) è ancora in formazione. In ambedue le coorti (oltre ai giovani in cerca di occupazione) fa la comparsa il fenomeno inquietante dei ragazzi “né né”, quelli che non studiano, non ha lavoro e non lo cercano. Sono l’11,2% nella fascia più giovane, il 18,9% nell’altra. Tra i 25 e i 29 anni, il 58,8% lavora, il 14,4% è ancora in formazione, il 10,1% è in cerca di lavoro, il 16,7% “sta a casa”.



È facile notare le due principali incongruenze: una quota importante di lavoratori, con un’età vicina o superiore a trent’anni, non si pone il problema dell’impiego anche se non studia; i processi formativi durano troppo a lungo per una parte consistente di giovani. È noto che i nostri ragazzi si laureano più tardi dei loro colleghi europei (peraltro i diplomati trovano un’occupazione più facilmente dei laureati). Tra i 15 e i 24 anni è laureato solo il 3,1% (nell’Ue il 7,8%), tra i 25 e i 34 anni il 20,7% (nell’Ue il 33%). Come dato generale, i nostri giovani accedono tardivamente al mercato del lavoro. L’età media del primo impiego in Italia è a 22 anni contro i 16,7 della Germania, i 17 del Regno Unito.

Ma la vera questione del lavoro giovanile in Italia è un’altra. Si parla tanto di precarietà. Tra i 15 e i 24 anni svolge lavoro dipendente a tempo indeterminato il 45,8% dei giovani (nell’Ue il 53,9%). Lavora a tempo determinato il 40,1% (nell’Ue il 39%) e il 14% (nell’Ue il 6,8%) svolge un’attività autonoma. Nella fascia di età tra 25 e 39 anni lavora a tempo indeterminato il 66% dei giovani (nell’Ue il 73,6%), a termine l’11,5% (nell’Ue il 12,9%); svolge lavoro autonomo il 22,5% (nell’Ue il 13,5%).

Le percentuali più elevate, superiori all’80%, di rapporto a tempo indeterminato si trovano in paesi che, come il Regno Unito, non prevedono pesanti tutele in caso di licenziamento. Tra i 15 e i 34 anni svolge lavoro “atipico” il 24% dei giovani (si sale al 45,5% nella coorte tra 15 e 24 anni). Questo quadro, con tutte le sue contraddizioni, non sarebbe completo se non ricordassimo che uno dei problemi più seri riguarda il mancato incontro tra una domanda di mansioni manuali e un’offerta di lavoro intellettuale.

Tale squilibrio determina il fenomeno del lavoro rifiutato dagli italiani e l’effetto sostitutivo del lavoro degli stranieri. Un solo dato eclatante: per quanto riguarda le attività manuali, dal 2005 al 2010, sono usciti dal mercato del lavoro (quasi sempre per pensionamento) 848mila italiani e sono entrati, al loro posto, 713mila stranieri.