Durante la missione in Iraq alla quale ho partecipato alla fine del mese di aprile, in mezzo ai tantissimi problemi che tormentano il Paese, è emersa particolarmente la questione della sicurezza: In Iraq si muore perché si ha voglia di vivere.
Le persone hanno il desiderio di vivere e condurre una vita normale. Ogni giorno andare a scuola, fare la spesa, andare a lavorare, le azioni più comuni rappresentano una sfida, mossa dalla volontà di riscattare la storia di un popolo.
Uno sviluppo delle relazioni commerciali fra i due paesi a condizione di un maggiore riconoscimento dei diritti: è questo in sintesi lo spirito di quello che sarà il primo accordo di cooperazione tra Unione europea e Iraq, di cui sono relatore in Commissione Affari esteri. Questo accordo ha l’ambizione di pianificare la collaborazione futura tra noi e gli iracheni. Ossia stabilire quante risorse, come vogliamo destinarle, che tipo di scambi nei diversi settori svilupperemo e come far nascere uno sviluppo duraturo – e non solo economico ma anche sociale – basato sulla pace, in questo Paese così strategico per l’Europa.
Ne abbiamo discusso mercoledì scorso durante un’audizione a Bruxelles dal titolo “Le sfide sociali, economiche e politiche in Iraq”, alla quale hanno partecipato importanti esponenti della società civile irachena. Tra questi era presente Salma Jabbo, del Centro per la formazione e lo sviluppo per le vedove (sostegno alla partecipazione delle donne nelle riforme socio-economiche). Anche gli altri relatori erano tutte donne. Ho voluto dare a questa audizione un’impostazione tutta al femminile perché dalla mia visita di pochi giorni fa in Iraq ho avuto la percezione che senza il contributo e l’attiva partecipazione delle donne il Paese non potrà risollevarsi e crescere.
L’Iraq è oggi un Paese che cambia velocemente, in continua evoluzione, e che ha una grande volontà di rafforzare i propri legami con l’Unione. L’Ue ha oggi in Iraq solamente due funzionari e un ambasciatore. Tre persone che operano nel compound britannico. A Bahamas ci sono sette funzionari Ue. La domanda che l’Europa si deve porre è essenzialmente se ci siamo dotati di strutture adeguate. Le istituzioni Ue sono in grado di soddisfare al meglio le aspettative degli iracheni? Io dico che l’Ue deve ripensare i termini della propria presenza nel Paese.
Se ha senso parlare di una politica estera europea e se l’Ue vuole essere protagonista sullo scenario della pace e della guerra dobbiamo farlo soprattutto su questioni come l’Iraq, dove in passato ci siamo spaccati e divisi. Questioni sulle quali il nostro bagaglio di democrazia, di libertà e di amore per il bene comune possono davvero essere sventolati come la nostra bandiera.
È una sfida per noi rilevantissima dal punto di vista dell’immagine e della credibilità di una politica estera che prosegue tra tentennamenti e illusioni. Ovviamente non va trascurata l’importanza strategica di questa sfida: ottenere la fiducia del popolo iracheno grazie a una politica di aiuti che possa davvero fare intravedere loro spiragli di pace e benessere smorzerebbe in un solo colpo buona parte dell’ostilità esistente nei confronti del mondo occidentale.