La luce della sera

Ancora per una ventina di giorni le nostre sere si allungheranno, con delle giornate che dureranno di più. La riflessione di PIGI COLOGNESI sul significato della parte conclusiva del giorno

Ancora per una ventina di giorni le nostre sere si allungheranno; la chiarezza del giorno dura di più, fin quando la sostituisce una notte, che pare anch’essa un po’ meno scura di quella di altre stagioni. Nonostante l’appiattimento temporale delle nostre vite e delle città che non dormono mai, dei programmi televisivi che continuano come sempre, degli impegni o divertimenti serali che sono quelli di prima, la differenza si sente.

Tornando dal lavoro si ascoltano le urla dei ragazzi che giocano a pallone nel campetto e quelle delle madri che li chiamano, inutilmente, per la cena; frotte di passeggini escono dal microscopico parco e le mamme si trattengono senza fretta a chiacchierare; dopo cena c’è un sacco di gente a zonzo; sulla ringhiera della casa di fronte un africano sta seduto a fumarsi una sigaretta, guardando dall’alto il traffico sottostante o il tramonto e pensando a chissà cosa.

Le finestre sono aperte e ne fuoriescono suoni che le sere d’inverno avevano sepolto e che ora contendono l’attenzione al brusio ininterrotto di macchine a camion: il bimbo che strilla, il vociare di amici o parenti a cena, qualcuno che litiga e qualcun altro che prova un pezzo alla tromba.

Insomma, è la stagione in cui si apre uno spazio nuovo tra il giorno e la notte e «quando la sera scaccia il chiaro giorno», come direbbe Pertarca, è come se ci trovassimo l’inatteso regalo di qualche ora straordinariamente evocativa, ricca di pensieri, di preoccupazioni, di speranze e di ricordi; sempre che quelle ore non vengano otturate dal solito vacuo brusio.

Petrarca ne ha una percezione dolorosa: «A me doppia la sera e doglia e pianti»; ed effettivamente non può mancare, di sera, lo struggimento per un’occasione mancata, per un obiettivo non pienamente realizzato. E si sa bene che quel giorno finisce, inesorabilmente finisce, e non torna più. L’insoddisfazione può essere così acuta che Foscolo desidera la sera come evocazione della morte, cioè della conclusione di una ricerca ritenuta ormai vana: «Forse perché della fatal quïete / tu sei l’immago a me sì cara vieni / o Sera!». Nella sera di Foscolo, immagine e anticipo della morte, finalmente «dorme / quello spirto guerrier ch’entro mi rugge». Ma dorme per risvegliarsi. La lunga sera è anche spazio per pensare a un nuovo chiarore, a una ricerca che ricomincia, a un cambiamento che si continua a sperare.

La prima dolcissima sera che Dante trascorre nel Purgatorio è invece carica di nostalgia. L’uomo pellegrino – che è lui e siamo tutti noi – quando viene la sera sente «il disio», il desiderio delle persone e delle cose che ha dovuto lasciare e sente una puntura al cuore se «ode squilla di lontano / che paia il giorno pianger che si more», se la campana del vespero – si sentono ancora, anche in città – gli rammenta la finitudine del tempo. Ma lo sguardo nostalgico e pensoso del poeta è improvvisamente costretto a volgersi altrove, a osservare un’anima che chiede attenzione, alza le braccia e inizia a pregare.

Sconforto, smacco, nostalgia, giusta soddisfazione, speranza, attesa e progetto; tutto quello che la lunga sera suscita nell’animo di chi si ferma un attimo a guardarla e ascoltarla, fluisce e si pacifica dentro il grande fiume dell’invocazione.

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