Ricorre oggi il primo anniversario dell’uccisione, o più precisamente del martirio in Turchia di mons. Luigi Padovese, vescovo di Iskenderum (Alessandretta) e vicario apostolico dell’Anatolia, assassinato da un uomo che gli faceva da autista; e che salì poi sul tetto-terrazza della casa della sua vittima a proclamare che aveva dato la morte a Satana e a gridare “Allah Akhbar” (Allah è grande).
Anche nel suo caso, come in quello di un altro sacerdote cattolico precedentemente ucciso in Turchia, don Andrea Santoro, assassinato a Trabzon (Trebisonda) nel 2006, le autorità turche hanno descritto gli assassini come degli squilibrati che avevano infierito sulle loro vittime spinti da pulsioni puramente patologiche. Ammesso e non concesso che ciò fosse almeno in parte vero, resta il fatto che lo squilibrato afflitto da manie di persecuzione individua il proprio presunto nemico mortale non da sé solo, bensì attingendo a pregiudizi diffusi, o tanto più a campagne denigratorie in atto nella società in cui vive.
Dunque in ogni evenienza la scelta dell’assassino di mons. Padovese, come di quello di don Santoro, fu il riflesso eventualmente patologico di un contesto generale caratterizzato da discriminazioni e da vessazioni contro i non musulmani. Tutto ciò malgrado che la Turchia di oggi, figlia di un riformatore che esplicitamente si ispirava all’illuminismo francese, pretenda di essere un Paese “laico” nel senso che a tale concetto si dà tradizionalmente in Francia; ovvero qualcosa che tende spesso a risolversi in forme di libertà… asimmetrica, a pieno svantaggio delle visioni del mondo di tipo religioso.
Se questo può accadere nella “laica” Turchia non si fa fatica a immaginarsi come la situazione possa essere in quei Paesi a maggioranza musulmana che in vario modo non esitano a definirsi “Stati islamici”. La considerazione del ruolo attuale e delle legittime aspirazioni dei popoli a maggioranza musulmana, e la stima per i tanti tesori della civiltà islamica, non ci deve infatti far dimenticare la grande e drammatica lacuna di questa cultura, ossia la storica mancanza in essa del principio di laicità, nonché tuttora la grande difficoltà di svilupparlo a partire dal suo interno.
D’altro canto in questo la cultura islamica non è sola. Con buona pace delle presunzioni della modernità occidentale, il principio di laicità entra infatti nella storia con Gesù Cristo e il suo “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. E non lo si ritrova in alcuna altra civiltà, non solo in quella musulmana, ma anche in ogni altra, da quella indù a quella giapponese, dove non a caso l’imperatore è pure grande sacerdote. È vero che la piena attuazione di tale principio ha richiesto secoli, ma è altrettanto vero che esso in Occidente non è mai stato negato né annichilito, secondo un processo avviatosi subito e che già nel IV secolo ebbe due tappe fondamentali: nel 313 l’editto di Milano col quale l’imperatore Costantino sancì la libertà di coscienza (non solo la libertà dei cristiani come troppo spesso si continua a dire), e nel 375 la decisione dell’imperatore Graziano di rinunciare al titolo di Pontefice massimo, ponendo così definitivamente termine in Occidente alla coincidenza tra suprema autorità civile e suprema autorità religiosa.
Questa cruciale svolta – che è una delle grandi cause storiche obiettive dello straordinario sviluppo della civiltà occidentale – purtroppo nel mondo a maggioranza musulmana stenta ancora oggi ad avvenire. Come è noto oggi nel mondo arabo, che è il cuore del mondo a maggioranza musulmana, fervono movimenti anche – ma non soltanto – giovanili che premono per un ammodernamento tanto delle istituzioni quanto, e forse prima ancora, della società. È chiaro che, se accadrà come tutti speriamo, tale ammodernamento avrà dei suoi specifici caratteri. Noi per primi in Occidente non dobbiamo pretendere e nemmeno sperare che si tratti di un ammodernamento occidentalizzante. Se ciò fosse, sarebbe un processo senza respiro e senza futuro. La mesta fine dei regimi contro cui tali movimenti premono, che furono a loro tempo delle forme appunto di ammodernamento occidentalizzante, conferma con la dura forza dei fatti la sterilità di fenomeni del genere.
Nondimeno ci sono dei risultati di validità generale della nostra esperienza storica, come appunto il principio di laicità e la libertà di coscienza e di espressione, che il mondo a maggioranza musulmana deve per il suo bene fare propri, beninteso a suo modo. In tale prospettiva emerge il ruolo tanto impegnativo quanto provvidenziale dei cristiani in tali situazioni. In particolare in quei Paesi nei quali costituiscono una minoranza autoctona consistente – come in Egitto, in Libano, in Siria e in Iraq – essi con la loro stessa presenza pongono il problema della laicità dello Stato e del diritto alla libertà di coscienza e di espressione. E attingendo alle radici della loro fede e della loro identità possono dare un contributo decisivo a che esso trovi una soluzione non soltanto non imposta, ma nemmeno calata dall’esterno. È un compito arduo che, come già si è visto, giunge talvolta al martirio, ma è un compito in cui nessun altro li può sostituire; meno che mai noi cristiani dell’Occidente. Possiamo, anzi dobbiamo sostenerli moralmente, pregare per loro e insieme a loro, ma stando bene attenti a non scavalcarli. Sarebbe disastroso.