Di quanto sta accadendo tra mercati e politica abbiamo già visto parecchio, non troppo tempo fa. Nell’estate del 1992 c’era ancora la lira e la finanza globale esisteva da meno di un decennio, anche se aveva già fatto scoppiare due bolle a Wall Street.

La speculazione internazionale attaccò un’Italia in recessione, debolissima nel bilancio pubblico, solo parzialmente protetta dallo Sme. E il sistema politico della Prima Repubblica era in dissoluzione, dopo aver già incassato i primi colpi da Mani Pulite. Un governo Amato – formato dopo una pesante sconfitta elettorale di Dc e Psi – varò in luglio una manovra “lacrime e sangue” da 30.000 miliardi subito (oltre 15 miliardi di euro, a un cambio puramente indicativo) e da 100.000 miliardi per il ‘93.



Fu la famosa estate del “sei per mille”, il prelievo improvviso e forzato su depositi bancari al quale – nel gioco dei ricorsi – assomiglia moltissimo la “mazzata” sul bollo dei depositi titoli appena annunciata pochi giorni fa dal ministro dell’Economia. In quella Finanziaria c’era di tutto (dall’aumento dell’età pensionabile a una patrimoniale sulle società, a una “tassa sul medico di famiglia”), ma non bastò: così come non fu sufficiente che la Banca d’Italia di Carlo Azeglio Ciampi alzasse il tasso di sconto progressivamente fino al 15% e bruciasse migliaia di miliardi di riserve valutarie nella difesa della lira: quest’ultima – messa sotto pressione – dovette svalutare sul marco e scivolò da quota 765 a quasi 1000. Lo spread del Btp sul Bund (quello che ieri ha risuperato i 300 punti-base) toccò nell’ottobre ‘92 il picco storico a 760 punti.



Nell’immediato, quella volta ne uscimmo con un prestito dell’allora Cee (a spanne una decina di miliardi di euro di oggi), non così dissimile dagli aiuti odierni alla Grecia: oggi Atene va tenuta dentro l’euro, allora l’Italia andava tenuta agganciata al progetto dell’unione monetaria. Ma in cambio – e fu questa la vera exit strategy che l’Italia dovette concordare allo stesso tempo con i partner europei e con i mercati finanziari – fu aperta la grande asta delle privatizzazioni: perché uno Stato italiano in disavanzo irreparabile e molto indebitato era pur sempre ricco di gioielli.



Negli anni successivi furono vendute banche e assicurazioni (Comit, Credit, Bnl, Imi e Ina) e soprattutto Telecom. Poi – con l’euro ormai agguantato – sarebbe stata la volta di grandi quote di Eni, Enel, Finmeccanica. E fu questo, in fondo, il (presunto) “merito storico” del governo Ciampi e poi di quello Prodi: intervallati dal “Berlusconi I”, che segnò invece il debutto sostanziale e faticoso della Seconda Repubblica all’insegna di un nuovo rapporto tra politica ed economia incarnato dal premier-imprenditore.

Una “speculazione internazionale” – diversa, ma non troppo da allora – torna ad attaccare un’Italia – molto diversa, molto uguale – al tramonto della Seconda Repubblica. Poco importa se oggi gli “gnomi” che puntano l‘artiglieria siano apolidi e non più strettamente “anglosassoni”; che non gestiscano più solo petroldollari di sceicchi, ma un mix di piccoli risparmi di famiglie europee, di enormi fortune di oligarchi russi, di tesori semi-pubblici di fondi sovrani asiatici.

Il gioco della speculazione – di veloci profitti puramente finanziari realizzati sulle turbolenze dei mercati – non è cessato neppure dopo il falò dei derivati a Wall Street, anzi: il regolamento di conti tra la finanza globale e le democrazie politiche nazionali o sovranazionali è ancora in corso e l’esito è incerto. Ancora una volta, una media Azienda-Paese come l’Italia si ritrova subito sulla linea del fuoco. Il motore economico è lento nel rincorrere la crescita e le finanze pubbliche non sono in ordine: non sono state disastrate dai salvataggi bancari (come, ad esempio, negli Stati Uniti), ma sono prive di elasticità e di “risorse strategiche”, appesantite da troppi “costi della politica” e del tutto squalificate sul versante della produttività della spesa.

Come nel ’92 il sistema politico è lacerato, avvelenato, paralizzato: è uno dei problemi, non certo la soluzione dei problemi come dovrebbe (e potrebbe) essere. L’euro protegge, ma fino a un certo punto: a differenza della “liretta” del ‘92 è forte, ma proprio per questo frena la competitività del made in Italy, che ha preso il posto della vecchia grande industria. E poi la valuta europea ha avuto talmente successo da non essere neppure più sotto il controllo dell’Europa stessa: una parte di quel controllo (molto interessato) è passato alla Cina, che sta accumulando riserve valutarie e debito pubblico in un nuovo gioco geopolitico. Paradosso vuole infatti che – probabilmente – la scarsa fretta della Germania nel risolvere la crisi greca (pur in via di contagio nell’Unione) sia legata alla volontà di non rafforzare troppo l’euro, lasciando spazi competitivi ai prodotti tedeschi (ed europei).

Nel frattempo, l’Italia non ha più “tesori” da offrire e le stesse aziende strategiche passate sotto il controllo privato sono anzi tra le più penalizzate dalla speculazione sui mercati azionari, con ulteriori effetti a cascata (si pensi a patrimoni e redditi delle fondazioni grandi azioniste delle banche come UniCredit e Intesa).

Che fare? Se la “lezione del ‘92” ha ancora qualche attualità, il rigore di Tremonti, nell’immediato, non ha alternative, anzi: si profila ancora più rigido. E poco importa se questo rigore può sembrare una catena imposta da un euro fatalmente poco amato. Tutte da scrivere, ovviamente, restano le dimensioni politico-sociali del passaggio in corso: come Craxi nel ’92, Berlusconi non sembra più in grado di costruirle e pilotarle, anche se non è ancora chiaro chi e come lo potrà fare. Ma la stessa gestione del rigore fiscale – ora come allora – si annuncia molto politica e ben poco tecnica.

La geografia della ricchezza italiana del 2011 è abbastanza diversa da quella di vent’anni fa: sotto questo profilo il passaggio dal “6 per mille” all’inasprimento del bollo sui dossier titoli in banca appare per ora troppo elementare sul piano della strategia di riordino della pressione tributaria e del rilancio dell’economia per via fiscale. D’altro canto, è indubbio che la spesa pubblica parassitaria, nella Seconda Repubblica, sia aumentata di nuovo di pari passo con il riformarsi di un nuovo “sommerso”, quello dell’economia criminale: assai meno rassicurante di quello captato dal Censis più di un quarto di secolo fa.

Quel “buon sommerso”- fatto di imprenditorialità diffusa e di nuove capacità di vivere il sociale – rappresentò la corrente ultima del grande cambiamento italiano: l’adesione del paese all’Europa seguì quelle tracce, assai più di quelle tecnocratiche dei banchieri dell’euro. E in fondo è più importante capire se nel profondo del sistema-Paese ci sono risorse utili di questa natura, piuttosto che sapere come andrà dopodomani l’asta dei Bot: anche perché lo zoccolo di ricchezza finanziaria degli italiani e la struttura bancaria domestica, per ora, offrono qualche garanzia (quelle che negli Stati Uniti non ci sono più, anzi, non ci sono mai state).

Per quanto apparentemente “virtuali”, saranno invece decisive quelle concretissime “idee di Paese” che Berlusconi ha incarnato senza però realizzarle: l’energia, la flessibilità, l’innovatività dell’impresa privata e della società civile in perenne lotta con uno Stato “più uguale” di altri Stati nel frenare lo sviluppo. Il pericolo – come sempre – non è il default finanziario e non è misurabile nello spread di un giorno fra titoli sovrani o in un tasso di cambio. Il rischio-opportunità riguarda invece – sempre – la competitività in termini di libertà economiche realizzate e di nuove forme di coesione sociale. La “speculazione” attacca sempre chi è debole, mai chi è forte.

P.S. Le banche italiane non sono fallite e non falliranno, a dispetto di chi ne atterra i corsi in Borsa anche dopo le ricapitalizzazioni. A fallire è stata la Lehman Brothers.