Sembra proprio che la virtù più alla moda dell’estate 2011 sia la mitezza. Se ne parla sui giornali, la si elogia pensosamente, magari citando Bobbio, la si auspica. La mitezza si porta molto bene in un clima sociale e politico segnato dai mesti colori del tramonto.

La si può indossare un po’ stropicciata, come un vecchio abito da cerimonia tirato fuori dal cassettone dopo una stagione in cui si potevano mettere solo jeans da battaglia e giubbotti antiproiettile. Oppure si ordina un capo del tutto nuovo, fatto di leggero materiale sintetico, colori pastello, sfumature tenui, preferibilmente sul verde natura incontaminata o sul rosa dialogo a ogni costo.

La virtù della mitezza è stata riesumata per decretare la fine della politica gridata, fatta di insulti, di spettacolarizzazione, di litigiose apparizioni televisive, di disprezzo dell’avversario. E ci sarebbe solo da rallegrarsi se – attraverso l’abbassamento dei toni da più parti invocato – la politica tornasse a parlare un linguaggio piano e modesto. L’importante, però, è che parli di qualcosa di reale; perché si può non dire niente sia gridando che sussurrando.

Qualcosa comunque mi sembra stonato. Prima di tutto che il contrario della mitezza – sguaiatezza, intolleranza, aggressività – viene attribuito dai fautori della nuova moda solo ed esclusivamente a una parte politica, quella attualmente al governo. Che non è priva di tali vizi, ma certo chi le si oppone non usa linguaggio da educande, toni da nonno bonario, comportamenti da lord inglese.

Una gaia manifestazione di piazza a suon di musica e di colori per festeggiare il nuovo sindaco di Milano non è sufficiente a far dimenticare l’aggressività, repressa o patente, che chi ha fatto campagna elettorale ha visto e sperimentato per settimane e settimane. Anzi, proprio chi ha fatto quella campagna ha trovato persone tutt’altro che miti: la situazione economica è dura, i problemi sono tanti, la convivenza e difficile e la reazione è comprensibilmente quella di uno scontento confuso, che facilmente trova, per esprimersi, la strada dell’aggressività.

I promotori della nuova moda della mitezza dovrebbero passare qualche ora su un filobus di Milano e ascoltare le conversazioni: pettegolezzo acre verso i colleghi (assenti, ovviamente), scatti di rabbia al minimo contrattempo, lamento iroso su qualsiasi argomento, dal caldo afoso ai programmi televisivi serali.

Insomma, ho il sospetto che questa della mitezza sia solo una trovata estiva. E temo che, in realtà, nasconda qualcosa di peggio. È come se ci chiedessero di ritirarci in buon ordine, visto che tutto intorno è ormai rovina e spazzatura. Il mite sarebbe uno che non se la caccia più di tanto, che osserva disincantato il mondo che va a rotoli e non spreca più neanche il fiato per dire che non gli va bene.

È una mitezza timida e senza speranza, senza grandi attese, senza voglie, senza certezze. Molto vicina alla triste constatazione di Malraux: «Non c’è ideale al quale possiamo sacrificarci, perché di tutti noi conosciamo la menzogna, noi che non sappiamo che cosa sia la verità».

I miti delle beatitudini evangeliche, invece, non sono dei disperati dalle buone maniere; sono così certi che non hanno bisogno di nessuna esagerazione di toni o di comportamenti; essi «erediteranno la terra».