Scrivo questa nota quando è appena giunta la notizia che Angela Merkel e Nicolas Sarkozy si sono trovati d’accordo nel non emettere gli eurobond, che – al di là della discussione tecnica che si può fare su tale strumento – potevano essere l’inizio di un’azione concordata per affrontare a livello europeo la crisi tanto del disavanzo quanto del debito pubblico che si sta profilando in modo così acuto in questi giorni.
Il nostro governo, invece, ha varato la scorsa settimana una manovra che ci si presenta come una necessità ineludibile per arginare la speculazione dell’oligopolio finanziario mondiale sul disavanzo (che è cosa diversa dal debito) italiano, che ha un peso significativo sulle aspettative degli investitori e sulle volontà speculative dei grandi operatori delle borse mondiali. Tuttavia, il decreto legge ha in sé alcune contraddizioni molto evidenti.
La prima riguarda la volontà di ridurre il debito pubblico. Da questo punto di vista, è innegabile la delusione di coloro che si aspettavano il vero provvedimento necessario per far fronte a tale riduzione, ossia l’aumento dell’età pensionabile, che doveva essere portata, sia per le donne che per gli uomini, immediatamente a 65 anni. Questo provvedimento (che è stato adottato in modo bipartisan in Australia tre anni fa, e che ha portato l’età pensionabile a 67 anni) avrebbe avuto un effetto importantissimo nel rassicurare gli investitori, data la natura strutturale dell’intervento, e nel dare al Paese una scossa sul piano della legittimità del governo, dando altresì un messaggio di fiducia ai giovani.
Le altre proposte che sono state presentate, e che si dovrebbero tradurre in legge, danno l’impressione di portare a un approfondimento della disuguaglianza sociale e all’iniquità fiscale. Mi riferisco, soprattutto, all’imposta straordinaria sui redditi da lavoro dipendente superiori ai 90.000 euro. Infatti, essa colpisce una fascia di persone e di famiglie che già pagano le tasse. Inoltre, dal punto di vista della massa del prelievo, questa imposta non garantisce un importo sufficiente a far fronte alle tremende necessità che abbiamo oggi.
Forse sarebbe stato più opportuno dare vita non a una patrimoniale, che avrebbe significato spaventare gli investitori e allontanare ancor più l’Italia dalle intersezioni virtuose (e non viziose) coi mercati mondiali, ma a un’imposta patrimoniale straordinaria sugli immobili, che sarebbe stata sicuramente accolta favorevolmente se a essa si fosse accompagnata l’esenzione sulla prima casa. Oppure adottare la proposta presentata dall’opposizione (che anche l’Onorevole Maurizio Lupi ha fatto propria) di tassare i capitali rientrati in Italia con lo scudo fiscale: una mossa che consentirebbe una buona dose di entrate e, soprattutto, l’inizio di un percorso di equità sociale, che è assolutamente indispensabile cominciare.
Il grande problema che la manovra porta con sé è che non ci sono in essa misure favorevoli alla crescita. L’aumento dell’età pensionabile poteva compensare quello di cui il nostro Paese ha drammaticamente bisogno, cioè una forte detassazione sul lavoro e sul capitale, in modo da favorire la ripresa degli investimenti italiani e stranieri e da contribuire ad aumentare il mercato interno e quindi il salario sociale dei lavoratori, ponendo le basi per una crescita non basata solamente sulle esportazioni.
Questo, infatti, è il vero problema: non ci potrà essere una crescita sostenibile se a fianco di quella fondata sui meccanismi classici dell’export lead, cioè della prevalenza della crescita del Pil tramite esportazioni (tipica dell’Italia e della Germania), non ci sarà un ampliamento del mercato interno. Si tratta di una questione importantissima, tanto più che i dati relativi al commercio mondiale ne segnalano da un paio d’anni una costante decrescita. Il che vuol dire che per un lungo tempo potremo avere davanti a noi una nuova recessione, che potrebbe non essere riequilibrata dalla crescita dei cosiddetti paesi emergenti.
Un’altra questione molto importante per la tenuta e l’ampliamento del mercato interno e dei consumi è il dibattito in corso sull’Iva. Molto spesso, purtroppo, ci si dimentica che la manovrabilità di questa imposta è fortemente vincolata a regole europee. Il che vuol dire che non è possibile avere una modulazione dell’Iva articolata secondo determinati scaglioni di beni cosiddetti di lusso. La stessa Germania, che ha aumento recentemente l’Iva, è giunta al 20%, che è già l’aliquota massima che sussiste oggi in Italia. Dunque si sarebbe dovuto in passato negoziare fortemente con le autorità europee per far sì che rimanesse uno spazio di sovranità nazionale per quel che riguarda l’applicazione dell’imposta sui consumi.
Un altro lato oscuro della manovra riguarda le cosiddette privatizzazioni delle aziende municipalizzate. Come ha già giustamente spiegato Paola Garrone a ilsussidiario.net, il problema non è tanto indire un nuovo “bando” per le privatizzazioni, ma fissare regole chiare sulla liberalizzazione dei servizi pubblici locali attraverso gare. In mancanza di ciò, si ripeteranno gli errori degli anni Novanta, con la sostituzione di monopoli privati a monopoli pubblici, oppure si creerà uno stato di confusione e faragginosità in un settore che ha già patito situazioni molto penose come quelle delle multiutilities in alcuni comuni del Nord.
La manovra, poi, scarica sugli enti locali gran parte dell’aumento delle tasse, mettendo naturalmente in grande difficoltà tanto le Regioni quanto i Comuni. Anche in questo caso si è scelto di percorrere una strada diversa da quella auspicabile, cioè quella di non colpire i consumi interni. Le misure previste colpiranno, infatti, attraverso gli aumenti tariffari dei servizi pubblici essenziali, i bilanci delle famiglie.
Dunque non c’è che da rimanere insoddisfatti: questa è una manovra che non accontenta nessuno, che non guarda al di là della contingenza e che, soprattutto in queste ore, soffre di una terribile incertezza che non potrà che pesare sul giudizio che le Borse daranno oggi, derivante dalle divisioni che emergono nel governo sulle questioni essenziali del decreto legge. Da questo punto vista è però necessario respingere ogni tentativo di continuare a premere per una crisi di governo o perché si tengano elezioni anticipate. Quale che sia il governo di questo Paese, e quale che sia la sua fama o legittimazione nei confronti dei cosiddetti mercati mondiali, esso deve continuare ad agire e tutte le forze devono continuare a sostenerlo cercando di presentare delle proposte positive.
Un’ultima cosa che lascia molto perplessi della manovra, specie in una situazione così difficile e così pericolosa, data la mancanza di un’unità d’azione europea e il sostanziale dominio della Bce – che punta più alla stabilità che alla crescita – su tutta la politica economica degli stati dell’Eurozona, riguarda l’opportunità di inserire le disposizioni riguardanti la contrattazione tra le parti sociali. Non perché questa via da un punto di vista teorico e astratto non sia quella giusta, ma perché tale scelta presenta due aspetti negativi.
Il primo è che costituisce un vulnus all’autonomia delle parti sociali: quanto previsto doveva essere il risultato di un negoziato tra le parti sociali, anche a costo di stipulare accordi che potevano interessare una maggioranza e non tutti gli attori interessati, e non una scelta operata dal potere legislativo. Il secondo è che una proposta di questo tipo, in presenza di un’opposizione pregiudiziale e anti-governativa di tipo sindacale (tanto da parte della Cgil che della Fiom), non farà che accrescere la conflittualità sociale, cosa di cui in questi momenti non abbiamo assolutamente bisogno.
In definitiva, se si dovesse descrivere qual è il senso di questa manovra c’è da rimanere sconcertati, perché il governo di centrodestra colpisce una parte dei suoi elettori (quelli che hanno redditi da lavoro dipendente superiore ai 90.000 euro) e nello stesso tempo non dà loro una prospettiva, non solo per quanto riguarda gli investimenti di tipo economico, ma anche di vita, di ciclo famigliare, di possibilità che possono avere i loro figli.
Si continua, in poche parole, a ritenere erroneamente che la questione di fondo sia quella del debito pubblico. Ciò è molto negativo, perché il debito pubblico, se ci fosse un’azione europea concorde, potrebbe essere ridotto non solo attraverso gli eurobond, ma altresì mediante tecniche molto sofisticate, presentate recentemente anche da studiosi indipendenti. Ciò ci permetterebbe di occuparci del disavanzo, che è molto più pericoloso nel medio e breve termine.
Ma per abbattere il disavanzo in modo strutturale (e di conseguenza aggredire anche il debito) occorre la crescita economica. Ed è questa la cosa che la manovra non fa e nemmeno indica. Possiamo quindi dire che la montagna ha partorito un topolino, che però non correrà lontano.