I politici italiani in arrivo al Meeting di Rimini avranno un bel da fare per recuperare il malessere di una estate consumata tra crisi e manovre. L’evento che comincia domenica 21, giunto al suo trentaduesimo anno di vita è tradizionalmente considerato nella micro-ottica della politica tricolore il primo appuntamento del nuovo anno sociale: passerella per alcuni, occasione di seria riflessione per altri, stimolo per ascoltare e confrontarsi per un terzo gruppo.
Ma quest’anno è diverso per tutti. Il titolo del Meeting (“E l’esistenza diventa una immensa certezza”) si erge davanti a una stagione di promesse infrante e precarietà galoppanti. Il governo ha partorito due manovre nel giro di un mese e nessuna delle due è riuscita a smorzare quella sensazione diffusa di un Paese finito in un vicolo cieco. Non si sa da che parte cominciare, o almeno la politica comunica sistematicamente l’idea di non sapere da che parte si può (ri)cominciare. Niente grandi idee, niente parole d’ordine, né strade percorribili, né futuro.
Dalle carceri, un mondo lasciato languire nell’orrore quotidiano, alle infrastrutture, la capacità decisionale e gestionale della politica è pari allo zero. Un alto dirigente ministeriale mi racconta che le poche imprese che ancora si muovono sul territorio italiano per creare nuovi impianti e centri produttivi hanno una sola regola: stare lontano dalla politica, soprattutto da quella locale, ignorarla, agire come se non esistesse.
Un altro amico, dirigente di un grandissimo e delicatissimo ente pubblico afferma perentorio che “la pubblica amministrazione è irredimibile”, snocciolandomi gli esempi viventi di un mondo morto, eppure capacissimo di compiere danni. E il giovane brillante di cui ho accennato in un editoriale de IlSussidiario.net di fine luglio è rimaste senza risposte su chi e come lo può aiutare seriamente a mettere sul mercato una idea. Questi sono i discorsi che corrono nelle case e negli uffici dove ci si interroga sulla realtà di questa nostra Italia.
La domanda interna è pressoché ferma, tutto il sistema poggia di fatto su quelle diecimila imprese che esportano: molte di esse lo fanno benissimo, sia chiaro, ma è evidente a tutti che un Paese di sessanta milioni di abitanti non può reggere su quelle imprese. E infatti non regge. Mangia i suoi risparmi e scoraggia i suoi giovani, e fino alla recente doppia manovra governativa vivacchiava sforzandosi di credere alla comunicazione ufficiale del medesimo governo, ripetuta ossessivamente come un mantra: “L’Italia sta uscendo dalla crisi meglio degli altri Paesi”. Poi improvvisamente sono arrivati i superbolli per le auto di lusso e le tasse sui titoli. Roba da governi democristiani degli anni ’80, quando venivano aumentate le marche per i passaporti e c’era la sovrattassa sulle auto a gasolio.
Ma la seconda manovra ha portato in prima pagina quel che gli imprenditori e i soggetti sociali attivi già sapevano da tempo: siamo davvero in una palude e la nostra qualità di vita deve diminuire. E quali provvedimenti sono stati decisi?: innanzitutto l’incredibile, vergognoso, insensato “contributo di solidarietà” (la ben nobile parola, basti pensare alla Polonia di Lech Walesa, è stata così sconciata) che colpisce coloro che già sono schiacciati dal fisco. Da notare che questo gruppetto è composto da un numero risibile di contribuenti: possono essere tutti radunati in un quartiere di Roma. Ma invece di accrescere il loro numero stanando evasori ed elusori le nostre autorità hanno pensato bene di spremerli ancora un po’, spingendoli a tagliare ulteriormente i consumi, mentre il grosso dei percettori di redditi medio alti e alti rimane nascosto all’ombra di società olandesi e antillane, raggiunte magari con i jet privati.
Non basta però citare la nuova tassa disposta da un governo che “mai metterà le mani nelle tasche degli italiani”. Occorre ricordare l’ingiusto picchiare di martello sul pubblico impiego (quella specie di ricatti sulle liquidazioni e sul blocco degli aumenti), le ridicole norme sulla tracciabilità, le oscure prospettive sui sistemi di assistenza, e il colossale capitolo sui tagli agli enti locali, per il quale ha totalmente ragione il governatore Formigoni: si vendano un paio di reti Rai (qualcuno ha seguito la programmazione estiva?), le Poste e un po’ di altri asset e poi ragioniamo.
Da queste tormentate manovre, che hanno puntato a rastrellare denaro in fretta, è nata una convulsa discussione di spessore indecifrabile: sulle provincie e sui comuni (vogliamo scommettere su come finirà la conclamata riduzione?), sull’Iva, sulla Robin Hood tax energetica, sugli eterni privilegi della Casta sui quali la medesima Casta (che beninteso non è composta solo di politici ma di tutti coloro che devono il posto ai politici, tipo i membri delle cosiddette e inutili Authority che vantano stipendi colossali) risponde con grave insensibilità, sul federalismo fiscale che doveva portarci in Paradiso ma per ora sembra coincidere solo con maggiori tasse a carico dei cittadini. Discussioni dove hanno prevalso pregiudizi e interessi “politicanti” e non il bene comune, di cui mai come in questo momento ci sarebbe bisogno. Insomma è stata una brutta estate politica perché di fronte a una difficilissima sfida le risposte che sono state tentate e i dibattiti che ne sono sorti non sono parsi alla sua altezza. Un’occasione di riscatto c’è, e comincia domenica prossima in un ambiente che ama ascoltare e confrontarsi con grandi idee e grandi proposte. Speriamo.