Desidero ringraziarvi usando la lingua più cara al mio cuore e vorrei esprimere la mia felicità rivolgendomi a voi come “Vice presidente del Meeting Cairo”.

Perché questo evento che è avvenuto al Cairo due mesi prima della rivoluzione, grazie a voi e alla vostra amicizia, è stato un’opportunità per me di vivere i più bei valori che si sono realizzati nella rivoluzione: libertà bellezza e unità.



Il termine “stabilità” è stato uno dei più ricorrenti nei discorsi dell’ex presidente Mubarak. Il mantenimento della stabilità era il fine supremo di un sistema per cui gli egiziani dovevano sacrificare le proprie libertà e i propri diritti. Per questo hanno dovuto accettare di vivere sotto l’ombra della legge d’emergenza per quasi mezzo secolo.



A causa di questa stabilità che contraddiceva le libertà e i diritti, la ruota del processo della modernizzazione e della rinascita araba si è arrestata, si è guastata, la ragione araba ha perso la sua autenticità e l’uomo arabo è diventato estraneo alla sua realtà.

I concetti di cui si serve il discorso arabo moderno e contemporaneo non riflettono né esprimono la realtà araba attuale, ma sono presi in prestito nella stragrande maggioranza dei casi o dal pensiero europeo o da quello arabo-islamico medievale. In entrambi i casi, tali concetti sono assunti per esprimere una realtà agognata e indefinita, ma oscurata e nascosta da questa o quell’immagine ideale, presente nella coscienza e nella memoria araba.



Il più grande supporto che l’Occidente può offrire alle esperienze democratiche appena nate è essere fedele ai valori della sua stessa civiltà senza usare due pesi e due misure. La sfida che propone la primavera araba non è economica, né politica, bensì morale e culturale.

È una sfida morale perché l’esperienza della rivoluzione egiziana ha dimostrato che la fede negli alti valori umani è una forza invincibile. Dopo la rivoluzione egiziana il discorso sui principi morali non è più un idealismo lontano dalla realtà, poiché i milioni di egiziani che sono scesi nelle strade non avevano niente di fronte al più forte regime repressivo poliziesco della regione araba se non la fede nei propri diritti e nelle proprie libertà.

La rivoluzione egiziana non è stata una rivoluzione di rabbia, ma una rivoluzione di fede. Il regime di Mubarak è crollato dopo diciotto giorni perché ha ricevuto una sfida straordinaria. Non ha dovuto affrontare né un leader, né un partito, né un’ideologia, bensì dei valori umani e una volontà di gruppo. È per tale ragione che a nulla gli sono valsi i tradizionali strumenti della repressione, del terrorismo e della diffamazione, così come non ha funzionato nemmeno il negoziato.

La rivoluzione ha risentito anche di un fattore nuovo: l’uomo digitale, l’io comunicativo. Il volto del mondo è cambiato con i suoi strumenti, i suoi concetti, i suoi valori e le sue forze, così come sono cambiate le relazioni tra l’umanità nei diversi elementi della sua esistenza. A partire da questi fenomeni è cambiata la relazione con la realtà, poiché con l’ingresso nell’era digitale del tempo individuale, della produzione elettronica e della società informatica si è formato un nuovo reale etereo, virtuale, mediatico.

Forse è questo che fa della rivoluzione egiziana una rappresentazione culturale unica: essa infatti è il primo evento al mondo che ha infranto i confini tra il reale tradizionale e il mondo virtuale.

La tecnologia moderna ha fatto sì che ognuno possa agire efficacemente e ha posto fine al monopolio dell’industria e alla confusione dell’informazione. Chiunque sia in possesso di una fotocamera digitale o di un cellulare può essere artefice di un reale alternativo che niente può separare dal reale che viviamo nel nostra quotidianità e che si dimostra tutti i giorni con forza: dai documenti di Wikileaks alla rivoluzione egiziana, dalle proteste israeliane che sventolano la bandiera egiziana a Tel Aviv, alle recenti sommosse di Londra. Siamo moralmente e culturalmente pronti ad affrontare questo reale?