Mentre scrivo questo articolo, il Congresso degli Stati Uniti ha votato la proposta di legge sul tetto al debito pubblico, esito del compromesso raggiunto dai leader Democratici e Repubblicani di entrambi i rami del Parlamento e approvato dal Presidente Obama. A quanto pare, gli Stati Uniti eviteranno così il primo default della loro storia. Dico a quanto pare, perché pochi sarebbero sorpresi se il compromesso non passasse il vaglio del Parlamento, data la forte ideologia che domina la politica in questi giorni, specialmente nel Partito Repubblicano.

In un editoriale sul New York Times, David Frum scriveva domenica scorsa: “Sono un Repubblicano e lo sono sempre stato. Credo nel libero mercato, in una bassa tassazione, in una regolamentazione ragionevole e in un intervento pubblico limitato. Ma se guardo alle settimane di rancore che hanno preceduto l’accordo dell’ultimo minuto di domenica sul bilancio, vedo qualcosa in cui non credo: costringere gli Stati Uniti sull’orlo del default; minimizzare i bisogni e le preoccupazioni di milioni di disoccupati; difendere ogni singola lacuna o favoritismo nella legislazione fiscale come se si trattasse di un principio fondamentale del conservatorismo; proporre massicci tagli ai bilanci pubblici nel mezzo della peggiore recessione dalla Seconda guerra mondiale. Non sono l’unico. Solo un terzo circa dei Repubblicani è d’accordo che tagliare la spesa pubblica sia la priorità assoluta del Paese. Solo circa un quarto dei Repubblicani è d’accordo che il bilancio debba essere rimesso in equilibrio senza alcun aumento delle imposte. Tuttavia, questo terzo e questo quarto hanno preso il comando nel mio partito.”

Il voto dei Repubblicani sul compromesso dirà qualcosa sul futuro di questo partito. D’altra parte, anche il Partito Democratico è diviso e i progressisti stanno già discutendo il prezzo del loro appoggio a Obama nelle prossime elezioni presidenziali.

Questo è stato l’argomento principe nei media della scorsa settimana, ma per me è stato diverso. L’evento che più mi ha personalmente colpito la scorsa settimana è stata la morte dell’Arcivescovo Pietro Sambi, nunzio apostolico negli Stati Uniti. L’Arcivescovo Sambi era un mio amico e un lettore costante di questi articoli. Quando venne nominato nunzio negli Stati Uniti, un comune amico gli disse di contattarmi e, qualche settimana dopo il suo arrivo a Washington, mi chiamò e mi invitò ad andare a trovarlo.

Fu un incontro di circa un paio d’ore, discutendo dei bisogni della Chiesa negli Usa, di fede e cultura, del ruolo della scienza nel modo attuale di guardare ai bisogni dell’uomo, della funzione episcopale in tali situazioni, ecc. Rimasi profondamente impressionato non solo dalla vastità dei suoi interessi, ma soprattutto dalla sua fede e dall’umile devozione che ne derivava. Da quel giorno, o in visite simili o in incontri casuali, continuammo la nostra discussione su questi temi.

Qualche mese fa lo vidi in televisione mentre celebrava la Messa pasquale nella basilica del National Shrine of the Immaculate Conception a Washington, e mi accorsi che c’era qualcosa che lo stava immergendo ancor di più nel mistero della sua fede, e che la sua esperienza di questo livello di fede era guidata dalla liturgia. Non so se fosse a conoscenza della mortale malattia che lo ha portato alla morte, ma sono sicuro che il Signore lo stava preparando per questa estrema prova della sua fede.

Per quanto ho saputo da amici che erano con lui all’inizio dell’estate, sono sicuro che ha superato brillantemente il suo esame e che dall’eternità sta pregando per la Chiesa di questo Paese e, naturalmente, continua a leggere Il Sussidiario. Grazie per tutto, caro amico.