Lo scacco dei mercati

Il discorso di Silvio Berlusconi alla Camera ha forse deluso alcuni, ma ha evidenziato un aspetto importante della situazione riguardante la speculazione

Il discorso di Silvio Berlusconi alla Camera può non essere piaciuto a chi attendeva annunci più o meno apocalittici: dalla cacciata di Giulio Tremonti al varo di un’imposta patrimoniale d’emergenza. Sarebbe sbagliato, però, liquidarlo come generico, evasivo, deludente.

Parlando in alcuni passaggi “da imprenditore”, il premier ha posto di fronte il Parlamento – cioè il Paese – ad alcune evidenze scomode. La prima e più dura è quella che la speculazione finanziaria è una forza autonoma. Lo è da almeno un quindicennio e dopo la grande crisi ha assunto forse ancora maggior “arroganza”. La finanza globale non attacca più i fondamentali di un sistema-Paese o di una macro-area come l’Eurozona: crea e sostiene, invece, le proprie interessate “irrazionalità”. Da un lato persegue fini di lucro a brevissimo termine, dall’altro tende a mantenere squilibri geofinanziari a medio termine, utili a conservare la “dittatura” dei mercati. Qualche volta con effetti paradossali.



Da due anni, ad esempio, i “media” (soprattutto quelli anglosassoni) battono ossessivamente sull’euro “debole”, sull’Eurozona “sull’orlo della dissoluzione”. È vero che la governance dell’euro priva di un coordinamento fiscale è molto problematica, ma in una finanza di mercato se uno strumento è “forte” o “debole” lo decide il mercato stesso. E l’euro resta “fortissimo” sul dollaro, ostacolando in questo la ripresa di alcuni paesi esportatori come l’Italia.



La forza dell’euro, certamente, non dipende soltanto dai fondamentali – molto diversificati – all’interno dell’Eu-17, ma anche dal fatto che sull’euro puntano molti investimenti esteri, primi fra tutti quelli della bilancia valutaria cinese. E una macro-valuta sotto il controllo di nuove forze geopolitiche certamente preoccupa, ma a essere inquieta è soprattutto la “Corporate America”, indebitata e non più dotata di una valuta “pigliatutto”.

Quello dei titoli pubblici e soprattutto delle banche italiane, per certi versi, è un altro paradosso. Berlusconi ha detto che le banche del Paese sono solide, solventi e liquide e ha sottolineato il “fondamentale” più importante: hanno retto alla crisi del 2008-2009 praticamente senza pesare sul bilancio pubblico. Negli Stati Uniti (ma non diversamente in Gran Bretagna) è stato l’esatto contrario con le banche sono fallite a catena, il Tesoro è stato costretto a intervenire con centinaia di miliardi di dollari e, nell’estate del 2011, abbiamo assistito all’inimmaginabile: rischio-default scongiurato all’ultimo secondo, perdita ancora probabile dello storico rating “tripla A”, Casa Bianca e Congresso invischiati in una surreale recita politico-istituzionale.



Analogamente, la scorsa primavera Londra è stata sconvolta un sabato pomeriggio dai dimostranti contro un budget “lacrime e sangue” varato da David Cameron per gestire i costosissimi aiuti alle banche. Ma tant’è: ancora una volta nel mirino ci sono i titoli di Stato italiani e le banche nazionali che li hanno sottoscritti. E una big di Wall Street – la Merrill Lynch, salvata in fretta e furia nel 2008 con una fusione – l’altra sera si è premurata di avvertire i circuiti informativi globali che il suo potente braccio di asset management ha deciso di non investire più in titoli di Stato di Italia e Spagna.

Questa è la “speculazione internazionale”: quella che tra l’altro mescola un crac para-criminale come quello della Grecia (cliente della Goldman Sachs), una crisi da sviluppo “drogato” (quella della Spagna delle “cajas” avvitate attorno all’immobiliare) e un caso di bassa crescita come quello italiano. Quest’ultimo è il vero problema strategico che il governo Berlusconi ha il dovere – e dovrebbe avere il potere – di affrontare.

Ed è vero che il presupposto della governabilità è una stabilità politica che in questo momento manca e va velocemente ricreata sotto la responsabilità del leader della maggioranza uscita vincente dalle ultime elezioni. Lo hanno ricordato – con onestà intellettuale non scontata di questi tempi – alcuni recenti editoriali de Il Corriere della Sera (l’ultimo firmato personalmente dal direttore Ferruccio De Bortoli): il Paese è in grossa difficoltà, ma proprio per questo deve ricorrere fino in fondo alla sua civiltà democratica, ormai consolidata. Non può rinunciare alla propria sovranità (condivisa con altri paesi europei) perché una dittatura apolide vuol continuare a giocare a scacchi con le economie reali: con il Pil, con l’occupazione, con i risparmi, con le tasse, con le privatizzazioni “degli altri”.

Non sappiamo se Berlusconi riuscirà a concludere – come ha promesso ieri – la legislatura fino al 2013, né se nelle prossime settimane sarà in grado di aiutare le imprese e le famiglie del Paese a fronteggiare attivamente la crisi. Però ieri non è venuto meno al suo ruolo quando ha ricordato che – almeno per ora – in Italia/Europa governano gli esecutivi democraticamente eletti, rispondendo al Parlamento e/o ai cittadini. Non i mercati. E neppure la Confindustria o la Cgil, tanto meno quando sono unite nel chiedere un governo tecnico o “istituzionale”. E mai devono governare le magistrature.

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