Come parte della manovra estiva, il Governo ha varato due disegni di legge volti a dare il via a riforme costituzionali in tema di pareggio di bilancio e abolizione delle province; sul piano tecnico, lo scetticismo dilaga con ampie e approfondite argomentazioni che fanno leva soprattutto sui tempi di approvazione dei provvedimenti (si calcola che le province potrebbero sopravvivere fino al 2017), ma anche sulla sostanziale inutilità di una norma, quella sul pareggio di bilancio, al cui risultato si può agevolmente pervenire senza il complesso iter previsto per cambiare la Costituzione.



Quanto alla manovra, sentimenti alterni si sono susseguiti: disorientamento per l’altalena di annunci cui l’opinione pubblica è stata sottoposta da metà agosto a oggi circa i contenuti e, poi, un senso di sollievo per la fine della stessa: per poco che si sia ottenuto, almeno adesso si sa a che cosa si andrà incontro.



In questo contesto, l’avvio dei processi di riforma costituzionale si pone su questo secondo fronte, visto che è davvero importante ripensare alla struttura degli enti locali, immutati nel nostro Paese dall’unità d’Italia nonostante il gran parlare di federalismo che si è fatto in questi anni. Infatti, pensare di conferire alle Regioni poteri di organizzazione dei propri territori, lasciando loro la decisione su come aggregare i propri comuni, è un segno di volontà autenticamente federale, coerente con le logiche che dominano tutti gli altri stati federali europei.

Inoltre, per quanto incredibile possa sembrare, una certa riduzione della classe politica si potrebbe realizzare se a consigli e giunte provinciali si sostituiranno aggregazioni tra comuni, e soprattutto se tali aggregazioni faranno buon uso coordinandosi con aggregazioni esistenti (ad esempio, in Lombardia ai 100 piani di zona titolari delle funzioni in materia assistenziale) senza aggiunte di ulteriori livelli. E, ancora, se la palla passasse alle Regioni, si potrebbero sperimentare soluzioni differenziate, più adatte alla forte differenziazione esistente tra i territori del nostro Paese dell’attuale uniformità napoleonica.



Sul secondo fronte, tempi di approvazione a parte, la proposta di inserire l’obbligo del pareggio di bilancio per Stato ed enti locali si inserisce su quel movimento di innovazione che domina anche in altri stati europei, e massimamente in Germania, che da tempo ha introdotto una norma analoga nella Costituzione federale. Non può certo essere che un primo, sommesso, punto di partenza, ma, se si parte in questo modo, forse si potranno identificare altri segnali di buon volontà non inutili a incoraggiare chi nel nostro Paese sembra ormai rassegnato all’inevitabile.

Eccesso di ottimismo? Gli aforismi sull’ottimismo sono ben noti e mirano tutti a svalutare questo approccio ai problemi. Contemperando ottimismo e realismo si potrebbe concludere, almeno ad interim, che non sempre paga soffiare sul lumicino che fumiga, soprattutto se accanto ai due progetti governativi si potesse aggiungere al treno delle riforme almeno la tanto agognata riduzione del numero dei parlamentari, non tanto per efficienza, quanto come segno inequivocabile di buona volontà. Avanti così, dunque, ma sempre con giudizio.