La pena di Troy Davis

La scorsa settimana negli Stati Uniti è stato giustiziato Troy Davis, condannato a morte per l’uccisione di un poliziotto nel 1989. Il commento di LORENZO ALBACETE

Ho trovato interessante che la settimana scorsa i media abbiano messo da parte, almeno per un po’, il dramma economico e politico in atto nel Paese per considerare il caso di Troy Davis, condannato a morte per l’uccisione di un poliziotto a Savannah, Georgia, il 18 agosto del 1989.

Dopo tutti questi anni di ricorsi contro la sentenza, Davis, che si è sempre dichiarato innocente, è stato ucciso con un’iniezione letale il 21 settembre. Anche gli ultimi ricorsi presso lo stato della Georgia sono stati respinti, malgrado sette dei nove testimoni di accusa avessero ritrattato la loro testimonianza. L’ultima speranza, la sospensione dell’esecuzione da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti, è stata rifiutata la notte stessa della sua esecuzione.

Il caso Davis ha scatenato sulla pena di morte una discussione tra gli americani senza precedenti, resa più intensa dall’appoggio ai ricorsi di Davis di diversi paesi europei e dell’America Latina, nei quali è stata già abolita la pena di morte. Anche il precedente presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, è intervenuto a favore di Davis, così come il Papa ha fatto sapere di appoggiare la richiesta di sospensione dell’esecuzione.

La famiglia della vittima, in particolare la madre, ha avuto a disposizione molto spazio in televisione per spiegare il suo sostegno all’esecuzione, pur essendo cristiana. Circa la richiesta del Papa, ha affermato trattarsi di un’iniziativa di funzionari del Vaticano, che sono comunque contrari alla pena di morte, e che il Papa, probabilmente, non era al corrente del caso specifico.

Non mi ricordo di aver visto o letto di statistiche su quanti cattolici siano favorevoli o contrari alla pena di morte, anche se parrebbe esserci un graduale spostamento in favore della sua abolizione. Mi sembra quindi utile, in questo editoriale, ripercorrere l’insegnamento del Magistero sulla pena di morte.

Nel 1995, nella sua enciclica Evangelium Vitae, papa Giovanni Paolo II scriveva della moralità della pena di morte queste parole: “È chiaro che, proprio per conseguire tutte queste finalità, la misura e la qualità della pena devono essere attentamente valutate e decise, e non devono giungere alla misura estrema della soppressione del reo se non in casi di assoluta necessità, quando cioè la difesa della società non fosse possibile altrimenti. Oggi, però, a seguito dell’organizzazione sempre più adeguata dell’istituzione penale, questi casi sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti”. 

Qualche anno dopo ha sollecitato tutti “in America ad accogliere il Vangelo della vita e della famiglia, per rifiutare e combattere ogni forma di violenza contro la persona umana dal suo concepimento alla morte naturale, con coerenza intellettuale e morale. ‘No’ all’aborto e alla eutanasia; basta con il non necessario ricorso alla pena di morte; ‘no’ al razzismo come ai soprusi sui bambini, sulle donne e sugli indigeni; si metta fine alle speculazioni sulle armi e sulla droga e alla distruzione del patrimonio ambientale”.

L’insegnamento completo della Chiesa sulla pena di morte si può trovare nel Catechismo della Chiesa cattolica, in particolare nell’edizione latina del 1997, che riporta anche i vari adeguamenti delle parole contenute nel testo iniziale del catechismo. Il paragrafo 2265 recita: “La legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri. La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell’autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità”.

Il paragrafo 2266 continua: “Corrisponde ad un’esigenza di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle regole fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravita del delitto. La pena ha innanzitutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole”.

Infine, il paragrafo 2267: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani. Se, invece, i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana”.

Concludendo, il Catechismo sostiene che oggi “i casi di assoluta necessità di soppressione del reo sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti”. Infine, nel 2005, il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace sotto il Card. Renato Martino ha pubblicato il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa stabilisce nel paragrafo 405 che “la Chiesa vede come un segno di speranza ‘la sempre più diffusa avversione dell’opinione pubblica alla pena di morte anche solo come strumento di legittima difesa sociale, in considerazione delle possibilità di cui dispone una moderna società di reprimere efficacemente il crimine in modi che, mentre rendono inoffensivo colui che l’ha commesso, non gli tolgono definitivamente la possibilità di redimersi’. Seppure l’insegnamento tradizionale della Chiesa non escluda – supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole – la pena di morte ‘quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani’, i metodi non cruenti di repressione e punizione sono preferibili in quanto ‘meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene più conformi alla dignità della persona umana’. Il crescente numero di Paesi che adottano provvedimenti per abolire la pena di morte o per sospenderne l’applicazione è anche una prova del fatto che i casi in cui è assolutamente necessario sopprimere il reo ‘sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti’. La crescente avversione dell’opinione pubblica alla pena di morte e i vari provvedimenti in vista della sua abolizione, ovvero della sospensione della sua applicazione, costituiscono visibili manifestazioni di una maggiore sensibilità morale”.

A mio parere, è importante sottolineare che la Chiesa non insegna che sono le circostanze a determinare la moralità o l’immoralità della pena di morte. Per noi, infatti, le circostanze di un atto umano sono l’occasione per un incontro con Cristo che ci si rivela proprio attraverso le circostanze. Il nostro giudizio finale su ogni singolo caso, in particolare dove è contemplata la pena di morte, deve venire proprio dalla nostra coscienza della presenza di Cristo crocefisso e risorto.

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