Né 100 giorni, né 100 ore. Al governo di Rajoy non sono quasi stati dati nemmeno 100 minuti di cortesia. L’eredità socialista, la pressione dei mercati e l’Europa hanno fatto sì che il suo avvio sia stato molto accidentato. Nell’ultima settimana del 2011, la prima che ha affrontato, l’esecutivo, con le squadre ministeriali ancora da nominare, si è visto costretto a realizzare rapidamente un taglio iniziale di 16 miliardi di euro. Dopo ha dovuto annunciare che mancavano 20 miliardi per sistemare i conti, rompendo così la promessa elettorale di non aumentare le tasse. Niente male come inizio.

Zapatero ha lasciato il deficit all’8% del Pil, non al 6%, e i conti dei servizi pubblici un’altra volta, come quando se ne andò Felipe González (Premier socialista dal 1982 al 1996, ndr), in rosso. Si è agito con decisione perché non c’erano alternative: il Governo temeva che lo spread aumentasse rapidamente, che Bruxelles e il direttorio Merkel-Sarkozy si innervosissero. E, nonostante i provvedimenti presi e il fatto che il nuovo Premier non ha spiegato perché si è visto costretto a rinunciare a una delle sue più importanti promesse elettorali, il sostegno popolare non è sceso.

Un sondaggio al di sopra di ogni sospetto, condotto dal giornale El Pais, assicurava domenica che il 53% degli spagnoli appoggia l’operato di Rajoy e persino che le intenzioni di voto in suo favore sono cresciute di un punto e mezzo rispetto alle elezioni, arrivando al 46,4%. Rajoy può contare sul potere più grande che abbia mai avuto un Presidente del consiglio nella storia della democrazia spagnola. Il suo partito governa undici Comunità Autonome, cui presto potrebbe aggiungersi l’Andalusia. Con questa forza istituzionale e con l’ampio sostegno dell’opinione pubblica, ha l’importante responsabilità di realizzare i grandi cambiamenti di cui la Spagna ha bisogno da decenni.

Non basta seguire i dettami della coppia Merkel-Sarkzoy o diminuire la pressione dei mercati. Il ministro dell’Economia, Luis de Guindos, ha fatto correttamente notare che una politica di tagli non accompagnata da riforme equivale a un suicidio. Rajoy aveva dato tempo a sindacati e imprenditori fino alla prossima settimana per elaborare una riforma del lavoro che è rimasta in sospeso dai tempi del franchismo. Se non ci sarà un accordo o se non verrà imposto si commetterà un errore. La Spagna ha bisogno che venga limitato il potere sindacale, così come di una misura che obblighi le banche a dichiarare le perdite che hanno subito dopo lo scoppio della bolla immobiliare. È l’unica possibilità per far sì che i prezzi delle case comincino a scendere e perché si sblocchi il credito.

Ma oltre a questo, è necessaria una profonda riforma del sistema di welfare che deve smettere di guardare con sospetto a quel che l’iniziativa sociale fa in campo sanitario o sul terreno dell’integrazione o dell’educazione. È il momento in cui la Spagna può passare dallo statalismo a un sistema di sussidiarietà nei servizi pubblici. Ora o mai più. Da questo cambiamento dipende in larga misura lo sviluppo futuro del Paese.

A suo tempo, l’attuale Sottosegretario alla cultura, José María Lasalle, aveva detto che le soluzioni del suo partito (il Partito popolare) erano quelle di Cameron. Bene, è il momento di costruire la Big Society alla spagnola. La struttura del Gabinetto e le nomine fatte al Ministero dell’Istruzione e della Cultura lasciano pensare a una politica poco decisa in questi due settori. L’economia è una priorità quando ci sono cinque milioni di disoccupati, ma l’educazione non può essere trascurata. Perché i tassi di insuccesso scolastico sono altissimi. Non vengono trasmessi in modo adeguato né le conoscenze, né le competenze perché i giovani possano affrontare il futuro. E quel che è peggio, non si trasmette nemmeno una tradizione che, messa alla prova, possa servire come ipotesi per affrontare nella vita.

Questo non è un compito dello Stato, ma il governo ha l’obbligo di rimuovere gli ostacoli che impediscono alla società di svolgerlo, in modo che siano i genitori a farlo. In campo culturale sarebbe una disgrazia sostenere un liberalismo troppo fiducioso nel mercato che non favorirebbe la vera pluralità che manca al Paese. C’è molto da fare e poco tempo a disposizione.