I numeri sono veramente tristi. In sei anni, dal 2004 al 2010, le domande per l’adozione internazionale sono calate del 32,6% mentre per quel che riguarda l’adozione nazionale, negli ultimi quattro sono precipitate del 37%. Eravamo secondi nel mondo, dietro soltanto agli Stati Uniti, con una crescita ininterrotta di richieste per oltre trent’anni, ma quest’epoca plumbea ha lasciato il segno anche nelle coppie italiane, tradizionalmente generose e aperte al bisogno.
Del tracollo vengono elencati diversi motivi: i costi innanzitutto, con l’adozione internazionale che supera tranquillamente i ventimila euro; i tempi, che superano gli anni; le sempre maggiori difficoltà burocratiche; la chiusura di certi Paesi e il logoramento delle famiglie quando percorrono l’iter nazionale.
Per il ministro della Cooperazione Andrea Riccardi, che è anche il nuovo presidente della governativa Commissione adozioni internazionali, è colpa dell’assenza di una politica di cooperazione verso i Paesi in via di Sviluppo (e quindi del Ministero degli Esteri): «Se la rilanciamo – ha detto – se torniamo a dialogare con Africa, America Latina, Asia, se facciamo azioni concrete le adozioni internazionali avranno un nuovo sviluppo».
Ma questa, come le altre, sono visione riduttive del problema. Non si adotta per lo stesso motivo per cui non si genera (l’Istat ci informa che lo scorso anno le nascite sono ancora calate dell’1%). E per diradare la densa nebbia che ottenebra il desiderio “naturale” di genitorialità, cioè che appartiene alla natura stessa dell’essere umano, occorrerebbe ricorrere all’antropologia, all’etica, alla cultura. È lì che si annida il male potente dell’individualismo e del nichilismo.
Oggi solo una “inversione educativa”, solo una proposta nuova che sappia ritrovare la via d’accesso al cuore umano può consentire a un marito e a una moglie di vivere serenamente paternità e maternità. Infatti, come ha commentato il presidente di una delle associazioni storiche delle adozioni internazionali “le domande calano perché oggi diventare genitori fa paura, è il futuro che fa paura”. È o non è questo l’orrido nulla nel quale sono precipitate le coppie italiane? E che si fa davanti alla paura? Diminuire i costi, snellire le pratiche, cooperare con i Paesi poveri? Sarebbe come svuotare il mare con un cucchiaio.
La paura è una reazione di fronte alla realtà. Ed è qui, nell’intersezione tra l’uomo (gli aspiranti padri e madri) e la circostanza che si trova a vivere che si è sgretolato qualcosa; in quel punto dove il cuore dovrebbe afferrare il reale appaiono invece le macerie della modernità – e del Novecento in particolare. L’uomo di questo secolo non si fida, non si affida. Per molto tempo gli italiani hanno desiderato e fatto figli in epoche di crisi ben peggiori di questa. Ma il fatto nuovo è che oggi i problemi di soldi, la precarietà del lavoro, gli ostacoli burocratici forniscono un formidabile alibi alla “anaffettività”, alla rinuncia, alla sterilità del rapporto con il presente; fenomeni che sono il vero cuore del problema.
Dunque, solo una (ri)educazione ci salverà. Sarebbe molto utile parlare di questo nella piazza pubblica (il Papa lo fa continuamente). Sarebbe interessante se ci si aiutasse tutti a svelare le ragioni della paura e a scoprire le ragioni di una speranza. Dovremmo preoccuparci di più della vera evasione che impoverisce la società, quella dalla vita. Anche i politici potrebbero dare una mano: con un pensiero forte, con una visione ideale, con norme giuste. E con una nozione un po’ diversa della parola più inflazionata del momento: crescita. Senza bambini nulla cresce.