Presa la decisione circa l’inammissibilità delle richieste referendarie volte a modificare l’attuale sistema elettorale, subito si sono alzate voce polemiche a proposito della scelta della Corte Costituzionale, la quale sarebbe stata influenzata dal contesto politico, avverso nella maggior parte delle sue componenti a una consultazione popolare. In attesa di leggere le motivazioni della sentenza, alcune considerazioni possono e devono essere comunque compiute, anche per neutralizzare – se possibile – prese di posizioni quanto meno azzardate.
La prima: certamente le sentenze sull’ammissibilità dei referendum hanno una contiguità con la politica, visto che si tratta di consentire o negare il ricorso al popolo di concezioni che si trovano costrette a ricorrere agli strumenti di democrazia diretta non avendo trovato un sufficiente ascolto nelle istituzioni della democrazia rappresentativa e, soprattutto, in Parlamento. Ammettere o no il ricorso alla consultazione popolare referendaria, l’istituito più vicino alle elezioni, non può non avere un forte impatto sulla politica nazionale nel suo complesso.
La seconda: una legge elettorale non è una legge qualunque; essa è parte integrante dell’impianto ordinamentale che determina la forma di governo, insieme alle norme costituzionali vere e proprie, alle norme dei regolamenti parlamentari e al sistema dei partiti. Toccare la legge elettorale, sia in Parlamento, sia tramite referendum abrogativo, è un modo per incidere non solo sulla legge in quanto tale, bensì sull’impianto generale che determina la forma di governo; si tratta dunque di una scelta forte, una scelta di sistema ed è rispetto al sistema che va valutata l’opportunità di manipolarla, soprattutto se questa manipolazione viene compiuta tramite referendum.
In questo senso occorre ricordare che, nella storia del nostro Paese, i referendum elettorali (persino il referendum sulla preferenza unica, apparentemente un dettaglio rispetto al sistema nel suo complesso) sono stati momenti politici decisivi – capaci persino di determinare il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Inoltre, la stessa legge elettorale, pur essendo una legge ordinaria, ha un forte impatto costituzionale, visto che un Paese non può farne a meno, pena il venir meno del principio democratico; la legge elettorale non si può dunque, tecnicamente, abrogare: occorre invece incidere su di essa in modo da lasciarla sopravvivere nelle sue parti essenziali, per consentire poi al Parlamento di riformularla secondo le indicazioni valoriali emerse dalla consultazione popolare.
In passato, fu addirittura il Parlamento a modificare la legge elettorale da sottoporre a referendum perché l’abrogazione non ne stravolgesse l’efficacia, ma si limitasse a introdurre limitate modificazioni. Insomma, Parlamento e popolo avevano lavorato concordemente per trasformare un sistema elettorale proporzionale in maggioritario, coerentemente alla portata estensiva delle modifiche da apportare all’intero sistema.
La terza, conclusiva: dichiarare inammissibili i due referendum proposti è stata certamente una scelta tecnica visto che, per non lasciare il Paese senza legge elettorale, occorreva supporre che – abrogato il Porcellum (referendum totale) – dalle sue ceneri rinascesse come l’araba fenice il Mattarellum; oppure che abrogare le abrogazioni (referendum parziale) comportasse la rinascita dei dettagli del Mattarellum abrogati dal Porcellum. Ora, soprattutto quest’ultimo quesito era stato certamente formulato con grande perizia, ma tutti erano coscienti che si trattava di un’operazione non priva di rischi per la sua complessità e per le incertezze che ne avrebbero potuto derivare non solo per la legge in questione, ma per l’intero sistema.
Incertezze che – su questo credo nessuno dubiti – il Paese in questo momento non è certo in grado di tollerare.