Eraclito dice che «l’armonia nascosta è più potente di quella manifesta». In tempi di mutamenti di cui non si capisce bene la direzione, di “crisi” di cui non si colgono esattamente i contorni è un insegnamento prezioso. Scavare per individuare quell’armonia più profonda richiede un surplus di lavoro, un acume maggiore, una più affilata capacità di penetrazione (l’esatto opposto, cioè, delle semplificazioni manichee che ci propinano quotidianamente).
Vorrei esemplificare parlando dell’opera di Jackson Pollock. Da qui a sabato 28 gennaio, giorno del centenario della sua nascita, commenti, critiche e rievocazioni si intensificheranno. Diranno, giustamente, che Pollock è stato il più grande pittore americano del XX secolo, perché ha sottratto l’arte degli Usa ai canoni del vecchio continente travolti dall’esuberante e drammatica vitalità di quello nuovo.
Ricorderanno la rivoluzionaria novità della tecnica usata per i quadri più famosi, il dripping, che consiste nel fatto che Pollock depositava le sue tele a terra, poi vi girava intorno armato di pennello e barattolo e faceva gocciolare il colore per ottenere quel labirinto di linee e di macchie che è l’inconfondibile cifra della sua pittura. Racconteranno la sua vita convulsa, del successo folgorante e della schiavitù alcoolica; fino al tragico incidente nel quale, a soli 44 anni, ha trovato la morte nella sua macchina schiantata contro un albero.
Afferrare l’armonia dei suoi quadri, dicevo, richiede un lavoro. La reazione più ovvia è quella di chi dice che non siamo di fronte a opere d’arte, che è tutto un pasticcio, che un quadro così lo faccio anch’io quando voglio (e infatti c’è un simpatico sito che mette in condizione di fare sullo schermo il proprio “pollock” personale usando mouse e click). Ma se si ha la pazienza di guardare (certo, l’ideale è dal vivo, anche per rispettare le dimensioni usualmente molto grandi dei quadri di Pollock, ma anche il pc può servire) si scopre di trovarsi di fronte a un’opera che inspiegabilmente trascina: l’occhio viene attratto da un qualche particolare e poi rilanciato a un altro in un percorso d’imprevedibile coerenza.
L’armonia non si può trovare se ci si ferma al primo impatto: una giornata, un insieme di rapporti, quello che leggiamo sui giornali, la vita stessa “a prima vista” ci appaiono come un guazzabuglio; occorre la pazienza di non trarre conclusioni affrettate, di scoprire nessi non immediatamente evidenti, un disegno nascosto. E non si tratta di un asettico esame intellettuale.
Pollock spiegava il suo strano modo di dipingere con queste parole: «Preferisco fissare le tele sul muro o sul pavimento. Mi sento più vicino al dipinto, quasi come fossi parte di lui, perché in questo modo posso camminarci attorno, lavorarci da tutti e quattro i lati ed essere letteralmente “dentro” al dipinto».
Per scoprire l’armonia nascosta occorre essere “dentro” ciò che si osserva. È l’esatto contrario dell’asettica analisi di chi si pretende neutrale. Non è il freddo calcolo di torti e ragioni che farà capire cosa non va in un rapporto; né l’accumulo di dati che permetterà di comprendere come uscire da una crisi. Non essendo più capaci di coinvolgersi educativamente con figli e studenti, tanti genitori e insegnanti si affidano sempre più alle diagnosi di psicologi e medici vari, mascherando dietro referti scientifici la loro incapacità a fare l’unica cosa che veramente educa: coinvolgersi in un rapporto proponendo l’ipotesi esistenziale da loro vissuta.
Certo, la ricerca dell’armonia nascosta è un viaggio in mare aperto, oltre la pozzanghera dell’ovvio, e il coinvolgimento esistenziale è drammatico. La vicenda umana di Pollock lo dimostra. Ma la sua arte, lascito di quel viaggio coinvolto, ha una potenza tale che gli siamo grati di averlo fatto e di continuare a insegnarcelo.