Michel Martone, certamente non è uno “sfigato” come chi a 28 anni deve ancora laurearsi. Lui, è vero, a 29 anni era già in cattedra: Diritto del lavoro, l’università romana di proprietà della Confindustria. Immaginiamo la soddisfazione orgogliosa del papà Martone: magistrato del lavoro a Roma, componente del Csm e presidente dell’Anm, oggi Avvocato dello Stato presso la Cassazione; non da ultimo: predecessore del figlio alla Luiss, Diritto del lavoro.
Nessuno stupore che Martone Jr. sia stato “junior fellow” dell’Aspen Institute Italia, l’esclusivo think tank pilotato da Giulio Tremonti. Nessuno contesta al rampantissimo viceministro “giovane” del Welfare il diritto di sentirsi il primo della classe e di proporsi come esempio. Ma invece di maramaldeggiare con i “bamboccioni” di turno, non sarebbe male se si occupasse del rovescio della questione: perché i “meritevoli e capaci” – come evidentemente è stato Martone – non hanno avuto tutti (e continuano a non avere) le stesse “pari opportunità” che ha avuto lui? È un tema banale, da convegno sui “cervelli in fuga”?
Il problema è proprio questo: sfilano le stagioni di governo, i tecnici si alternano ai politici e a ogni esecutivo “del Presidente” si affaccia un Martone a dire che la scuola, l’università e la ricerca non funzionano. Si affrettano giusto il tempo di fare un po’ di carriera. E se non sono “figli di papà” della tecnocrazia capitolina, hanno studiato in istituti privati d’élite: come lo stesso premier Mario Monti al collegio Leone XIII di Milano e poi alla Bocconi. Ma forse il governo – avrebbe detto un liberista genuino come Ronald Reagan – non è la soluzione del problema: è il problema. E la scuola, l’università, la ricerca, non sono più cose da ministeri.
Se l’Italia resta un Paese “non per giovani” (come la Fondazione per la Sussidiarietà ricorda nell’ultimo numero di “Atlantide”) è anche per questo: perché il problema dei giovani “sfigati” continua a essere affrontato da governi statali, meglio se d’emergenza (e la cosa più grave è che lo pensano anzitutto i trentenni “sfigati”, i loro genitori e i loro professori) . L’Italia rischia di diventare anche un Paese “non per vecchi”: è quello che – al di là delle lacrime iniziali sui pensionati – sta delineando il superiore diretto di Martone: il ministro del Welfare, Elsa Fornero.
Nessuno discute che nel 2012 il salario non possa più essere in alcun modo una “variabile indipendente”. Ma giustificare la necessità di rottamare i cinquantenni con il fatto che sono “meno produttivi” dei giovani non è accettabile, soprattutto da un’economista. Per esempio non si può negare che un medico trentenne, per quanto preparato dagli studi e veloce nel formarsi professionalmente, non sarà mai “più produttivo” di un collega cinquantenne che ha saputo mantenersi competitivo. E forse vale anche per un insegnante. E se ci fossero ancora gli operai – a Mirafiori o a Termini Imerese – non è certo che confermerebbero la tesi della professoressa torinese. Ma il problema non è contrapporre ideologicamente trentenni e cinquantenni.
Piuttosto c’è bisogno di una ristrutturazione straordinaria al mercato del lavoro. I “vecchi” lavoratori dipendenti devono accettare una riduzione di reddito per far spazio all’ingresso dei giovani senza lavoro, a loro volta a condizioni economico-contrattuali meno favorevoli? Parliamo di questo, non dell’articolo 18. Parliamone con le Regioni e le parti sociali nei territori, non in liturgie sovietiche “al ministero”. Parliamo di come centinaia di migliaia di pezzi di “capitale umano” possano essere rivalorizzati: in modo, anzitutto, di badare a se stessi. Ma non è con un decreto – e neppure con un documento-lezione universitaria – che si dice a un “over 50”: da oggi in poi il tuo stipendio si dimezza e la tua pensione sarà una frazione e arriverà dopo; ma ti aiutiamo a fare il lavoratore autonomo o l’imprenditore.
Per far questo bisogna far venire alla luce risorse diverse, soprattutto non finanziarie. Se non rischiasse continuamente di diventare parola da convegno: c’è bisogno di sussidiarietà (senza virgolette). Ma questo – dirà certamente qualcuno – è un altro discorso. Oppure no?