Se mettete un cubetto di ghiaccio in un bicchiere d’acqua e lo lasciate sul tavolo, dopo qualche minuto si scioglie. Ma, scrive Sean Carroll, qualificato come uno dei cinquanta atei più influenti della storia: «Immaginiamo di mettere nel bicchiere d’acqua un pesciolino rosso. Diversamente dal cubetto, il pesce non va in equilibrio con l’acqua nel giro di minuti, ma nemmeno di ore. Rimane vivo, e fa qualcosa: nuota, scambia materiali con l’ambiente. Se lo mettiamo in un lago o in un acquario in cui ci sia cibo a disposizione, andrà avanti per molto tempo. È questa l’essenza della vita: ritardare la tendenza naturale all’equilibrio con l’ambiente circostante». Come tutte le altre cose, ciascuno di noi è un composto di “atomi” che per un certo tempo si coagulano a formare quello che chiamiamo “io” e poi si ridistribuiscono nell’ambiente, in vista di altre inimmaginabili composizioni.
Martedì scorso mi trovavo tranquillamente seduto alla mia scrivania; erano appena passate le nove e stavo rispondendo ai messaggi di posta elettronica. A un certo punto ho sentito che la sedia dondolava innaturalmente. Ho riconosciuto subito, ricordando quello estivo di qualche anno fa, che si trattava del terremoto. Non ho fatto niente di particolare; scappare fuori era troppo complicato e poi la scossa era già passata e sapevo che a Milano i terremoti non arrivano mai in maniera devastante. Mi sono rimesso al lavoro. Poi però ho pensato che sarebbe potuta arrivare una scossa di assestamento e mi sono posto seriamente di fronte all’eventualità di poter morire.
È a questo punto che mi è tornata in mente la definizione di vita di Carroll che avevo letto qualche giorno prima su un quotidiano. E ho scoperto che è immensamente insufficiente. Come mai io non voglio morire? Come mai non posso accettare alla leggera di sciogliermi nella materia circostante? Da dove viene il desiderio di essere per sempre? «Dov’è che i nostri antenati monocellulari – si chiede Carroll – hanno sviluppato un’anima immateriale immortale?».
Non saprei rispondere, ma osservo che io e tutti quelli con cui poi ho parlato del terremoto abbiamo una domanda che eccede la spiegazione del cubetto di ghiaccio che si scioglie nel bicchiere d’acqua. Istinto di sopravvivenza, si dirà; come quella del pesce rosso e di tutto ciò che, a differenza del cubetto, è vivo. Senz’altro. Ma a parte il fatto che proprio questo istinto sarebbe da motivare, resta ancor più profondamente da spiegare come mai io, a differenza del pesce, sono cosciente di questo istinto, sono consapevole della contraddizione tra il mio desiderio di vivere e la possibilità che la frattura di una roccia trenta chilometri sotto il suolo terrestre possa travolgermi in un istante.
È esattamente questa stranezza, che mi distingue sia dal cubetto che dal pesce rosso, di cui occorre dare ragione. Già Dante ha colto nel segno quando ha messo nell’inferno, cioè nel luogo dell’ultimo non senso, Democrito, l’antico filosofo cui Carroll si ispira, che «il mondo a caso pone». Pensare che io abbia un’anima immortale non spiega la sospensione attonita che ci ha presi tutti per la scossa più di quanto non faccia l’ipotesi che morire sotto le macerie sarebbe stata solo di una semplice ridistribuzione degli atomi che mi costituiscono?