Si sta tentando il possibile per uscire dalla crisi. Difficile capire se ce la faremo, ma provarci è un obbligo. Le decisioni del governo in materia di liberalizzazioni e semplificazioni vanno in tale direzione. Non attendiamoci però miracoli da soluzioni tecniche di qualunque tipo esse siano. Da sole non saranno sufficienti a riavviare un motore inceppato.
Le proteste dei forconi o il blocco dei tir ci dicono che è saltato un quadro di riferimento che va ben al di là delle ragioni più o meno condivisibili di chi manifesta. È giunto al capolinea un sistema che aveva demandato all’economia il compito di creare ricchezza secondo strategie ispirate al cosiddetto Washington Consensus (basate su individualismo, liberismo, propensione all’export e Stato minimo) e alla politica quello di ridurre diseguaglianze e squilibri nella distribuzione della stessa ricchezza. Una divisione che non ha funzionato e che ha prodotto i problemi che ci troviamo di fronte.
Cos’è successo? L’economia per rendere al massimo ha rivendicato sempre maggior libertà; la finanza, che ne costituisce uno strumento fondamentale, è stata negli anni particolarmente assecondata lasciando che in alcuni casi si svincolasse dall’indispensabile riferimento all’economia reale. La vicenda dei mutui subprime è emblematica. Sull’altro fronte, specie in Europa, gli Stati per garantire i cosiddetti diritti acquisiti sono ricorsi a politiche di welfare nel tempo insostenibili, alimentando in modo abnorme il debito pubblico: non si può distribuire ciò che non si è prodotto.
Nelle ultime settimane da più parti si è fatta strada l’urgenza di un ripensamento del capitalismo. Basti pensare al dibattito che dalle colonne del Financial Times a quelle dell’Economist si sta sviluppando. È proprio la natura della crisi che impone un profondo cambiamento, questa volta di tipo culturale. Non è in discussione il principio del mercato, per il quale credo valga quanto Churchill diceva della democrazia: è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate finora. La Chiesa stessa, che all’inizio l’aveva guardato con diffidenza, ne ha da tempo riconosciuto il valore. Ma il mercato non è un dato di natura, bensì un fatto di cultura e può quindi essere concepito con declinazioni diverse.
Una di queste è la sussidiarietà. Se la capacità redistributiva della mano pubblica è destinata a contrarsi sempre più, l’unica strada realistica che resta è valorizzare la naturale propensione delle persone a mettersi insieme per rispondere ai loro bisogni, sostenendo quei tentativi in grado di contribuire alla costruzione del bene comune. Le disuguaglianze vanno superate non solo con logiche di tipo assistenziale, ma a monte, nel momento in cui si produce la ricchezza, incentivando la capacità di fare, di creare imprese, di favorire la coesione sociale.
Un’applicazione importante di tale prospettiva è la promozione di un’effettiva libertà nella scelta della scuola o dell’università da coniugare con l’abolizione del valore legale del titolo di studio, che è fra le intenzioni del governo. Forse sta per finire l’epoca in cui il pezzo di carta contava più dei contenuti appresi. Gli enti di formazione non sono tutti uguali per qualità e tanti genitori hanno capito che il miglior investimento è quello dell’istruzione dei propri figli, professionale o universitaria che sia.
Questa è la via anche per innalzare il tasso di mobilità sociale, spronando chi ha voglia di mettersi in gioco. Bisogna garantire a tutti il medesimo punto di partenza, ma poi va premiato il merito. Penso alla Notre Dame University nello stato americano dell’Indiana, dove centinaia di persone hanno potuto riscattare una modesta condizione sociale con lo studio, e oggi, a loro volta, aiutano con gratitudine l’università nella quale si sono formati. È un circolo virtuoso che va incoraggiato. Adesso è la crisi stessa che obbliga ad aprire le finestre di un palazzo rimasto chiuso per troppo tempo.