Il dibattito sulle riforme istituzionali raramente ha toccato un livello così basso come negli ultimi tempi. Forse è colpa della pesante delegittimazione in cui è finito questo Parlamento, ma una cosa è certa: non si affrontano i veri nodi del nostro sistema, si rincorrono spauracchi tipo l’abolizione delle Province – come se fossero l’origine di tutti gli sprechi – per arrivare da ultimo alla grottesca proposta di Ainis di sostituire un ramo del Parlamento con una Camera composta da cittadini sorteggiati (Corriere della Sera del 2 gennaio), in modo da sanare la “frattura fra società civile e politica”. Più in basso di così.
Riguardo alle Province, quanto prevede la manovra “salva Italia” non solo presenta forti profili di incostituzionalità (in base all’art.118 lo Stato non può obbligare le Regioni ad assegnare alle Province solo funzioni di coordinamento), ma a fronte di un misero risparmio (circa 120 milioni di euro di stipendi ai politici) si rischia di creare una montagna di costi aggiuntivi per riorganizzare le funzioni. In Piemonte il 60 per cento dei Comuni è sotto i mille abitanti: in questo contesto come è pensabile gestire le strade senza un ente intermedio?
Il vero tema quindi, invece dei diktat a tavolino di qualche burocrate europeo, sarebbe un serio riassetto del nostro sistema istituzionale. I nodi sono numerosi. Primo: la mancanza di un Senato federale (altro che la Camera dei cittadini!) è fonte di costi spaventosi. Il bicameralismo perfetto italiano è ormai una rarità costituzionale, sopravvissuta, con caratteristiche simili, solo in qualche minore Stato africano. Circa mille parlamentari con le stesse funzioni sono un assurdo in un sistema che con la riforma costituzionale del 2001 ha decentrato competenze legislative con una cifra paragonabile a quella del Canada.
Non si tratta tanto del costo diretto: il bilancio del Senato è di circa 600 milioni. Si tratta dei ben più imponenti costi indiretti che derivano dall’ingestibilità del pasticciato assetto “pseudo federale” della riforma del 2001. Da allora è esploso il contenzioso costituzionale tra Stato e Regioni: se nel 2000 si contavano solo 25 ricorsi, nel 2002 sono diventati 95, nel 2004 si è giunti a 115; nel 2010 sono stati decisi 141 ricorsi. Intorno ad ogni ricorso si perdono fiumi di risorse: sono riforme che rimangono bloccate, decisioni che non possono essere prese, investimenti pubblici e privati che non possono essere realizzati.
La gestione del complicato riparto di competenze legislative è rimasta al sistema delle Conferenze (Unificata, Stato Regioni, Stato Città): una soluzione ancora adeguata in un federalismo solo amministrativo, non certo nel federalismo legislativo introdotto nel 2001, dove è invece indispensabile una stanza di compensazione politica a livello nazionale. Un’idea del problema la offre un qualsiasi ordine del giorno di quelle Conferenze, dove, all’interno di elenchi interminabili, decisioni su progetti di legge di vitale importanza sono frammiste a banali questioni (ad es. la nomina di un rappresentante regionale “in seno al Comitato tecnico per l’esame dei programmi delle organizzazioni del settore oleico”). Il corto circuito è evidente, i costi anche.
Secondo: ormai è evidentissimo – e senza nessuna attuale giustificazione – lo squilibrio che esiste al Nord fra Regioni ordinarie e speciali. In Trentino e in Valle D’Aosta il Pil pro capite è maggiore della Lombardia, eppure non versano nulla o quasi per il Sud. Lombardia, Veneto e Piemonte versano in perequazione circa i 2/3 delle imposte raccolte sul loro territorio. Se avessero gli stessi privilegi delle altre Regioni speciali vedrebbero salire di 5 o 6 volte il loro potere di spesa. Oppure potrebbero, in un regime di federalismo fiscale, ridurre le imposte e diventare eccezionalmente competitive con altri sistemi. Senza arrivare a questa soluzione, un realistico passo verso un nuovo equilibrio sarebbe attuare il regionalismo a geometria variabile dell’art.116 della Costituzione, rimasto lettera morta. Ridurre la presenza dello Stato in Regioni efficienti porterebbe in modo efficace, a vantaggio di tutto il sistema, a quello snellimento burocratico che da tempo si sta inseguendo.
Terzo: una dimensione territoriale e demografica efficiente non solo delle Province, ma anche delle Regioni (hanno senso Regioni come il Molise, più piccolo della provincia di Como?) permetterebbe quelle economie di scala che servono a ridurre in modo effettivo i costi. Quarto: perché non pensare, oltre a rivedere l’attuale legge elettorale, anche a un election day, riunendo in un’unica data tutte le elezioni ed evitando – come è oggi – che ogni anno si debba andare alle urne, con tutti i costi, non solo diretti ma soprattutto indiretti, che determina ogni competizione elettorale? Quinto: perché non si stabilizza il 5 per mille, se davvero si vuole dare un piccolo segno per colmare il divario con la società civile?