Le Sirene e il bisbiglio

PIGI COLOGNESI riflette questa settimana sulla parola vocazione, oggi svuotata del suo significato più alto che da sempre nella storia dell’uomo è stata legata al mistero

«Vocazione» è proprio una bella parola; parola piena, colma di significato e carica di risonanze. Sta a indicare che lo spazio attorno a noi non è muto, afono, indifferente, bensì carico di «voci». Voci chiaramente udibili, che chiamano, offrono una proposta, suggeriscono un cammino, chiedono un coinvolgimento. Un bambino non crescerebbe se attorno a lui non ci fossero tutte queste «vocazioni» a uscire da sé, a mettersi in rapporto col diverso, a imparare rispondendo. Ma anche noi adulti progrediamo solo in quanto accettiamo la proposta di queste vocazioni, anche laddove assumono l’aspetto di sfida, di «provocazione».

Ma se udiamo una voce, vuol dire che c’è qualcuno che la emette. Nella nostra cultura secolarizzata viene dato per scontato che a pronunciare tutte le parole che udiamo non sia qualcuno o qualcosa che eccede la nostra dimensione naturale, ciò che le culture religiose chiamano dio o mistero. Le voci – questa è la concezione più ovvia che respiriamo – provengono esclusivamente da altre persone come noi, dall’incrocio di fenomeni naturali da interpretare, dal contrapporsi di forze che lottano sul proscenio della storia.

La più sensibile cultura della modernità – basti pensare al teatro di Ionesco – ha ampiamente mostrato come questa impostazione puramente immanentistica produca sconcerto e vuoto: le voci si confondono in un «vociare» senza reciproca capacità di comprendersi e l’unica parola che, temporaneamente, si impone all’attenzione è quella di chi grida più forte perché dispone di mezzi – di cosiddetta comunicazione – più potenti.

Gli «uomini vuoti» di Eliot hanno voci «quiete e senza senso come vento nell’erba rinsecchita». E del resto l’immane mole di possibilità offerta dalla Rete rischia di aumentare la confusione, il sovrapporsi disordinato di voci che non veicolano nessuna vocazione. Come le Sirene dell’Odissea: hanno «voce bellissima», parlano con «suono di miele», promettono grande conoscenza e invece bloccano il cammino; tanto che la riva della loro isola «pullula in giro di scheletri umani marcenti».

Nella prospettiva religiosa, al contrario, la vocazione è parola misteriosa di un dio. Nelle prime pagine della Bibbia Dio «chiama» tutte le cose all’esistenza e dà loro un nome, vale a dire un significato e uno scopo. In forma eminente l’uomo è chiamato con un nome unico e inconfondibile e invitato a un personalissimo dialogo. E tutte le volte che Dio prende iniziativa nella storia usa il nome proprio: Abramo, Mosè, Samuele. Fino al punto culminante: Maria.

La persona stessa è una voce. Una voce che chiama, che desidera, che necessariamente si configura come domanda, come «invocazione». Lo riconosce stupito anche chi, come Pär Lagerkvist, nega la possibilità che qualcuno l’ascolti: «Non c’è nessuno che ode la voce invocante nelle tenebre ma perché la voce esiste?». Esiste proprio perché è stata fatta così: come invocazione, come attesa di dialogare – attraverso ogni voce – con una Voce più sonora e stabile.

Anche se, come ha scritto Clemente Rebora, essa non ci raggiunge come confuso frastuono o allettamento di sirena, ma come un «bisbiglio».

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