«Giustizia è fatta». Un commento facile da sentire ieri all’Aquila. Gli scienziati della Commissione Grandi Rischi condannati a sei anni. Colpevoli di aver tranquillizzato, una settimana prima del tragico terremoto abruzzese, tutti quegli aquilani che da giorni convivevano con scosse continue. Uno sciame che impaurì tanti. Un movimento tellurico che veniva seguito come si seguono le previsioni del tempo. Ma la scossa, quella che avrebbe causato 309 morti, non si poteva prevedere, come scientificamente, a oggi, non è possibile prevedere alcun terremoto. Eppure ieri molti aquilani si sono sentiti soddisfatti nel vedere condannate quelle persone che studiano i terremoti, che cercano di capire le cause, di studiarne il fenomeno. Addirittura per qualcuno la pena inflitta, di due anni superiore a quella richiesta dalla pubblica accusa, non sarebbe ancora sufficiente.



Voglia di giustizia o sete di vendetta. Difficile entrare nell’animo degli aquilani, difficile capire se la decisione del giudice Marco Billi sia stata equa e opportuna. Lo capiremo probabilmente tra novanta giorni, quando sarà possibile leggere le motivazioni di questa sentenza. A giochi fatti, però, rimane il vuoto causato dal terremoto. Nessuna sentenza potrà mai restituire, a chi ha perso sotto le macerie un proprio caro, quell’affetto e quella presenza fisica che il terremoto ha strappato. Nessuna giustizia terrena, nessun giudice e nessuna sete di vendetta potrà mai colmare un vuoto.



Ecco che allora si torna indietro nel tempo. Quelle giornate in cui si viveva con le scosse, si cercava di sdrammatizzare, ci si rideva sopra per allontanare la paura. Ecco, la paura era il vero mostro da sconfiggere prima del 6 aprile. E chiunque desse rassicurazioni, diventava una presenza piacevole. Forse questa è la chiave di lettura alle parole espresse pubblicamente dalla Commissione Grande Rischi dopo l’incriminata riunione. Gli aquilani hanno cercato di sentire quello che volevano ascoltare. Scosse che rilasciano energia ma quella grande scossa non ci sarà. E invece c’è stata la notte del 6 aprile 2009, e c’è stata quella tremenda scossa. Giustino Parisse, giornalista de Il Centro, rassicurò i suoi figli. Il mestiere lo aiutò in questo. Era presente alla conferenza stampa della Commissione Grandi Rischi e si sentì rassicurato dalle parole ascoltate al punto di trasferirle ai figli, invitandoli a dormire tranquilli nei propri letti.



Oggi quei ragazzi non ci sono più, ma la sentenza non potrà sopperire a questa mancanza. Il terremoto ha messo ciascuno degli aquilani davanti alla propria vita. Senza schermi, senza specchi, senza giustificazioni di sorta. Ognuno con la propria vita, con le proprie certezze. Ecco. Solo le certezze possono dare nuova vita. Solo chi ha capito che la vita si gioca sulla fede e sulla speranza ha, dopo il terremoto, trovato la forza di guardare oltre, nonostante il dolore, nonostante la mancanza di una persona cara che non c’è più. Chi è sopravvissuto ai propri figli, alla propria moglie solo con la Fede può accettare e capire cosa è successo. 

Presunzione il voler indagare sul perché è accaduto, il dover trovare risposte che quietano. Impossibile comprendere il perché del terremoto, il perché dei tanti morti. Impossibile affermare che la condanna di sette persone ha risolto i problemi di ciascun uomo con se stesso. Senza maschere e senza specchi. Tanti aquilani hanno invece imparato ad accettare quanto è accaduto alla luce di qualcosa di più grande che nella gioia e nella sofferenza dà un senso alla vita intera. Ieri alcune persone, quasi con timore e in silenzio – e nel riserbo assoluto – hanno detto che avrebbero pregato per questi scienziati. Uomini che hanno vissuto ieri il proprio terremoto, che volevano andare a fondo nella scienza per rendere migliore la vita degli altri e che hanno visto, all’improvviso, questa ricerca diventare boomerang.

La vita non si determina in un’aula di tribunale. Un giudice non potrà mai acquietare il cuore dell’uomo. Il terremoto dentro chi ha subito il terremoto non è ancora terminato. La prospettiva è la certezza di chi ha disegnato, anche nel dolore e nella sofferenza, la presenza di un volto amico che fa guardare avanti. E le risposte arrivano dalle scuole che si inaugurano, dai bambini che giocano insieme in strutture sempre meno provvisorie, in giovani che tornano a fare bischerate in centro storico perché alla loro età spesso si fa così.

Perché domani è un giorno nuovo. Da vivere fino in fondo.