Si discute, da un po’ di giorni, sulla crisi dell’insegnamento e dell’apprendimento delle materie umanistiche. Si dice che l’umanesimo è in crisi, che i professori quando spiegano Dante o Leopardi, gli affreschi della Sistina o il Partenone, Platone o Kant si trovano di fronte ad un muro di incomprensione e di indifferenza. Si dice che i ragazzi proprio non capiscono, guardano con occhi vuoti come di fronte a un vecchio e inservibile soprammobile e ascoltano giusto quei pochi secondi che servono per annoiarsi e decidere di mettersi l’auricolare e sintonizzarsi su un qualche canale di musica. Si dice che i professori sonno frustrati perché non riescono a trasmettere quello che sanno, a darsi adeguata ragione delle ore che spendono nell’insegnamento, ad avere quel minimo di soddisfazione che si prova quando la scintilla dell’interesse viene colta nello sguardo degli allievi. Si alzano, infine, alte grida di lamento sul futuro di questi giovani: che sarà mai di una generazione che s’annoia a morte di fronte ad ogni poesia, che non fa neanche una piega per una musica struggente o per un pensiero sublime? Cosa accadrà di giovani che rispondono solo a provocazioni epidermiche ed istantanee, che attribuiscono un minimo di credibilità solo alle proposizioni della scienza e ai risultati della tecnica?
Ovviamente si tratta di generalizzazioni; tutti noi a scuola siamo stati distratti e svogliati. Eppure non si può negare che i contenuti «umanistici» stiano pesantemente arretrando nella considerazione dei giovani. Ma bisogna chiedersi come mai.
Cerco di mettermi nei panni di un ragazzo. Mi hanno insegnato per anni che l’unica certezza è quella data dalla scienza e che il resto è solo interpretazione o opinione: perché mai dovrei interessarmi di questioni aleatorie come la poesia o la bellezza? Mi hanno riempito la testa col mantra dell’efficienza e dell’efficacia e ora mi fanno perdere tempo su argomenti di cui non riescono neppure lontanamente a farmi intravvedere il nesso coi miei interessi. Hanno «demitizzato» ogni autorità letteraria o artistica, mi hanno costretto a leggere poesie e quadri dal puro punto di vista dell’asettica e presuntamente scientifica «analisi testuale» ed ora pretendono che mi appassioni a un sonetto di Petrarca o a una natura morta di Cézanne. Mi hanno ripetuto che la verità non esiste e ora mi rompono con le astruserie di un filosofo il cui unico scopo sembra essere quello di dire che tutti quelli che l’hanno preceduto sono degli stupidi. Ma neanche per sogno: accendo l’iPhone e penso ad altro.
Insomma, per anni si è sostenuto che la dimensione «spirituale» è una vecchia bufala inventata per gabbare i gonzi e ora ci si stupisce che i giovani interlocutori si accontentino del «materiale», dell’immediatamente visibile, del superficialmente evidente. Forse quei professori che si lamentano per gli sguardi vuoti dei loro alunni dovrebbero anzitutto riflettere sulla vuotezza di quel che dicono loro e considerare il fatto che i ragazzi si accorgono subito se quel che sentono proviene da una personalità coinvolta oppure da un ripetitore, magari abile, di idee astratte.
I ragazzi se ne accorgono – qui è il punto dirimente – perché hanno in sé lo «spirito», non sono animaletti con una spiccata potenzialità di ragionamento, sono costituiti di desiderio di bello, di vero, di poesia. Anche se anni di maldestra diseducazione lo hanno sepolto sotto cumuli di detriti, aspettano qualcuno che prenda sul serio questo loro cuore. E lo può fare soltanto chi è leale col proprio.