La filosofa francese Myriam Revault d’Allonnes, in un suo recente studio (La crise sans fin) fa un’osservazione semplice e imbarazzante: si può ancora usare il termine “crisi” per descrivere una situazione difficile che non sembra affatto avviarsi a conclusione, ma piuttosto a stabilizzarsi come condizione permanente? Storicamente, infatti, la crisi è un temporaneo momento di passaggio, un bivio di fronte al quale, in tempi ristretti, si assume una decisione per andare da una parte o dall’altra. Ora, invece, sembra proprio che ciò che chiamiamo “crisi” stia diventando uno stato stabile.
È un altro modo per dire che le difficoltà presenti non investono solamente la dimensione economica o quella politica, ma si situano ad una profondità ben più radicale; come da più parti si è detto, siamo di fronte ad una crisi antropologica, dell’umano. La filosofa francese, in una recente intervista, la descrive in questi termini: “Oggi, se la crisi è percepita come insuperabile è perché è venuta meno l’idea di futuro”, è perché viviamo “un tempo senza promesse”. E spiega come mai: “L’uomo senza più le garanzie offerte dalle trascendenze del passato, cerca di costruirsi delle nuove prospettive, che però non hanno più nulla di definitivo e di certo. Da qui la situazione di incertezza che alimenta la sensazione di una minaccia incombente”. E, come se non bastasse, aggiunge: “Oltre al futuro, scompare anche il passato, dato che sembra impossibile fare ricorso alla tradizione”. Ne consegue che ci sentiamo condannati ad un presente che “non ha più significato, sembra non dirci più nulla e soprattutto ci sembra immobile».
Si giunge, in tal modo, alla domanda cruciale: “Da dove ripartire?”, alla constatazione che, per dirla con la filosofa francese, occorre ricercare “un nuovo inizio”. Su questo versante propositivo si vedono i limiti della posizione della Revault. Dice infatti che “è necessario che il futuro sia pensato in modo diverso. Per gli individui come per le società occorre sapersi orientare nell’azione anche senza garanzie. Una società non deve per forza sapere quale sarà il suo avvenire per cercare di costruirlo. Lo stesso vale per gli individui, che dovrebbero riuscire a conquistare la saggezza dell’incertezza”.
È certo che non si deve decidere di muoversi solo se si hanno garanzie o si sa già in partenza come andrà a finire, ma questo non significa affatto incertezza. Anzi è esattamente la certezza di qualcosa che si vive nel presente che consente di lanciarsi, anche senza paracadute, nella costruttività futura. Se vogliamo usare i termini della dottrina cristiana, dovremmo dire che la trasformazione della crisi in stato permanente sta mettendo in discussione la speranza. Essa però, non è recuperabile come volontarismo generico o attraverso l’improbabile “saggezza” di chi si rassegna a non aver nulla di certo su cui appoggiarsi. È piuttosto il coraggio di lasciare quelle che sembravano certezze – e che la crisi ha travolto – per recuperare la saldissima consistenza di ciò che, nel presente, non è venuto meno. E sul quale, quindi, diventa ragionevolissimo addentrarsi con certezza nell’incertezza del futuro.