Per anni, invitando al Meeting di Rimini personaggi provenienti da varie realtà russe – studiosi, artisti, giornalisti, uomini di Chiesa – abbiamo assistito alla sorpresa di persone che in pochi giorni si aprivano a un Occidente insospettato, dove un’esperienza viva di fede genera uomini vivi e quindi un popolo. Per anni, il Meeting è stato un biglietto da visita senza pari per spianare pregiudizi e suscitare interrogativi e desiderio di dialogare. Ma restava un’ultima punta di scetticismo, un’ultima distanza: certo, bellissimo, splendido… ma da noi, in Russia, è impossibile. Impossibile per tante ragioni: perché non ci sono le condizioni, perché l’uomo russo è individualista, perché mancano comunità cristiane paragonabili ai movimenti ecclesiali occidentali… comunque, impossibile.
Così abbiamo voluto raccogliere la sfida e tentare, coinvolgendo amici e ambiti incontrati nel tempo, di testimoniare questa stessa esperienza anche a Mosca, certamente senza alcuna ambizione di competere nelle proporzioni e nei numeri, ma con il desiderio che potesse riaccadere quello che ha detto proprio in questi giorni Emilia Guarnieri, raccontando della caratteristica precipua del Meeting di Rimini: un luogo dove succede qualcosa di più grande del risultato dei nostri sforzi, dove si palesa una presenza che non è risultato e conseguenza di essi.
È nata così una «tre giorni», sessione russa del convegno annualmente organizzato dalla Fondazione Russia Cristiana, che quest’anno era intitolato Est-Ovest: la crisi come prova e provocazione. Al bivio tra negazione e riscoperta dell’io, in cui si sono susseguiti eventi diversi (la mostra «150 anni di sussidiarietà», dibattiti e lezioni, la presentazione del Meeting 2013 all’Ambasciata d’Italia), tutti però concepiti come testimonianze ed esperienze di vita, tese a mostrare che la bellezza e la verità sono forze straordinarie di rinascita dell’umano.
Un tentativo ampiamente ironico data l’ambizione del progetto e la misura delle nostre forze, e abbastanza ben riuscito in termini di presenze numeriche e di echi sulla stampa. Ma soprattutto – e qui non si può parlare di successo ma di un imprevisto che, come sempre, accadendo mostra una prospettiva ben più vasta – sorprendentemente è caduta quell’ultima obiezione di impossibilità, e la gente ha intuito che parlare dell’Italia degli ultimi 150 anni, dei santi torinesi, degli affreschi del Buon Governo a Siena, della nuova laicità o dell’incontro tra il cardinal Federigo e l’Innominato nei Promessi Sposi, è in realtà una possibilità di riproporre il tema della persona e della sua libertà anche per sé, anche per la Russia.
In altri termini, il «Meeting-Mosca», se così si può dire, ha risposto – come ci ha detto qualcuno – a un’attesa non formulata ma viva. Come se, forse per la prima volta, partecipanti, ascoltatori, organizzatori e volontari avessero capito fino in fondo che quello che lì si diceva, sia pur parlando di un contesto italiano, è per loro, perché capiscano di più se stessi. Proprio come al Meeting di Rimini: un pubblico di spettatori che si trasformano in attori, in protagonisti. Come ad esempio Aleksandr Filonenko, che parlando alla tavola rotonda finale, ha ridetto per sé e per la Chiesa la posizione che sant’Ambrogio testimonia di fronte all’imperatore: la Chiesa non può «reagire», deve «testimoniare» la verità dell’uomo; per questo – ha proseguito – nella Russia di oggi, paradossalmente, proteste e diffusi atteggiamenti anticlericali sono una provocazione, la dimostrazione di una non-indifferenza, anzi un desiderio, forse in consapevole ma acuto, che la Chiesa si faccia portatrice del tesoro che porta in sé.
Oppure Tat’jana Kasatkina, che ha sottolineato la positività di una laicità liberatrice dell’uomo, rispetto al clericalismo che riduce il cammino cristiano a una convivenza comunitaria da cui è stato espulso Cristo. Insomma, l’intuizione di un metodo di lettura della realtà che diventa giudizio e cammino nella grande storia come nella storia di ogni uomo.